Brexit: la vittoria di Pirro delle periferie

Si è inaugurato martedì scorso (20/9) presso il polo di Scienze sociali di Novoli, un ciclo di conferenze sul tema della Brexit. Gli incontri (sei in totale) affronteranno un aspetto particolare del tema che oggi, più di ogni altro argomento, sta scaldando le relazioni internazionali, e in particolare le questioni europee.
Durante il primo incontro è intervenuto il professor Neil Winn (University of Leeds, UK), che ha tenuto una lezione intitolata The end of the affair: Britain, the EU and the Politics of divorce. Nell’ora e mezza di dissertazione, sono emersi diversissimi spunti: l’incontro è stato focalizzato, in particolare, sulle implicazioni dal punto di vista squisitamente britannico (se non addirittura inglese, poiché il capitolo della Scozia è stato accennato solo in conclusione) che avrà il risultato del voto del 23 giugno scorso, quando, ormai è ben noto, ha vinto chi voleva uscire dall’Unione europea.
Oltre ad uno scenario catastrofico sul fronte britannico (ma non certo positivo anche sul versante europeo), previsto dopo che l’articolo 50 del Trattato di Lisbona sarà invocato, l’ospite inglese ha descritto efficacemente in poche decine di minuti il percorso storico delle relazioni britannico-europee dal secondo dopoguerra, i profili dei protagonisti della campagna referendaria e quelli degli attori del nuovo gabinetto del PM May e la mappatura del voto del referendum britannico.
A riguardo di quest’ultimo punto sono giunte alcune degli spunti più innovativi e interessanti dell’intervento di Winn, avendo il risultato del referendum sulla permanenza o meno del Regno Unito nell’UE rispecchiato innumerevoli tendenze e dato origine a numerose interpretazioni. Un dato su cui pare utile focalizzare l’attenzione è che in Inghilterra la contrapposizione tra i centri urbani e la periferia inglese è stata stridente: Brighton, Manchester, Liverpool, Bristol dal lato del Remain; Cornovaglia, Yorkshire, Northampton da quello del Leave; e ancora per il primo i centri universitari di Oxford, Cambridge e Warwick; per i secondi gli ex distretti industriali di Birmingham, Peterborough, Stafford. Ma soprattutto, balza all’occhio anche ai meno esperti, che il maggiore contrasto nell’esito del voto si è consumato tra Londra e la Northern England, così chiamata dal professor Winn.
È stato proprio quest’ultimo a ricordare quanto la Gran Bretagna sia, non semplicemente dal punto di vista economico, imperniata sulla capitale: tale osservazione gli ha permesso di definire il Regno Unito come lo stato più centralizzato tra le democrazie occidentali (infatti è vero che all’interno dell’Unione europea la Gran Bretagna è il paese con il più largo divario tra la parte più povera e la parte più ricca del paese), ma soprattutto di ricordare che fin dai tempi dell’impero britannico, le decisioni, che riguardassero il porto di Mumbai, le strade di Nairobi o i carceri di Sydney, venivano prese a Londra. Ma ancora: gli stessi Galles e Scozia, parti integranti delle isole britanniche, per lunghi secoli sono stati concepite come periferia dell’impero, e solo con il processo di devolution, inaugurato dal governo laburista di Tony Blair nel 1997, tale rapporto tra queste due Nazioni e la capitale Londra è cominciato a riequilibrarsi.
L’Economist di qualche giorno fa ricorda come l’isola di Anglesey, in Galles, abbia un reddito procapite uguale al 57% della media UE, al di sotto di quello di molte parti della Sicilia (mentre a Londra il reddito è di 186% quello della media UE). Ancora più significativo è osservare come, con una buona dose di immaginazione, se il Regno Unito fosse privato della propria capitale, al PIL britannico verrebbe a mancare oltre l’11% del proprio valore.
Questa panoramica, breve ma necessaria, ha messo dunque in luce l’esistenza di una contrapposizione tra il centro e le periferie inglesi. Tale spaccatura non è un concetto nuovo in scienza politica. Essa corrisponde infatti ad uno dei cosiddetti “cleavages” elaborati da Lipset e Rokkan; una frattura che contrappone il centro urbano, politico, economico, la città, la capitale, alle aree periferiche, quindi agli ex bacini industriali, alle regioni che subiscono le decisioni centrali invece di promuoverle. Un contrasto che ha prodotto movimenti e, soprattutto, partiti regionalisti e separatisti (si veda la Lega Nord o il separatismo catalano).
Non si può negare dunque che una contrapposizione tra centro e periferia esista anche e proprio in Inghilterra. Non solo il modo di organizzare la vita politica del paese, ma anche i dati economici, come si è ricordato, lo dimostrano. E certamente il malessere, l’abbandono, il disagio che hanno vissuto e continuano a vivere le periferie inglesi hanno portato gli enti locali a organizzarsi e muoversi congiuntamente contro Londra (si ricordi la già citata devolution, ma anche l’interessante caso della lobby Core Cities). Questo fermento, è importante dirlo, non ha prodotto però in Inghilterra, come forse avrebbero previsto proprio Lipset e Rokkan, un partito separatista. La reazione più eclatante, invece, si è consumata proprio nelle cabine elettorali del 23 giugno: le periferie che sfidano il centro; che si riappropriano (con non poca retorica di noti personaggi inglesi, come Farage) di un proprio diritto, quello di scegliere; che tentano un colpo di coda contro l’establishment londinese, che si è resa protagonista negli ultimi decenni di un’enorme crescita di ricchezza (grazie soprattutto all’adesione al percorso dell’integrazione europea), ma che non ha saputo o voluto ridistribuirla equamente all’interno del proprio Paese. Poco importano i ragionamenti storici, i calcoli economici sui danni che avrebbe comportato, e che a questo punto comporterà, a livello politico e commerciale-finanziario, la Brexit: gli elettori delle periferie inglesi, lasciati in disparte da una Londra che si arricchiva, hanno creduto che votare l’uscita dall’Unione europea significasse anche un’inversione di rotta delle politiche dirette dal centro. Un voto anche contro l’ormai ex primo ministro, l’urbanissimo e proprio londinese, David Cameron e contro l’establishment che egli rappresenta.
Difficile sarà comunque rispettare le attese degli elettori che per tali motivi si sono schierati tra i Brexiters: paradossalmente, quelle aree economicamente depresse, come ad esempio la Cornovaglia dove, di nuovo, Brexit ha stravinto, sono proprio le regioni che sopravvivevano grazie all’aiuto dei Fondi Strutturali, provenienti dall’Unione europea. Inutile, si è quasi certi, per Theresa May sostenere, nel discorso del primo giorno di insediamento, che il Governo aiuterà ogni singola città britannica, ogni singolo cittadino del Regno Unito: uscire dall’Unione europea significa anche uscire dalla “fortezza” ed essere ancora più esposti alle regole del commercio internazionale (che vuol dire, ad esempio, più liberalizzazioni).
Insomma, quelle periferie che tanto ambivano a rendersi protagoniste di un cambiamento a loro favore, saranno ancora una volta le prime vittime di quel risultato che hanno contribuito a rendere realtà: la Brexit.

Riccardo Roba