In difesa dell’Austerità

“Austerità” è un termine che solleva numerose controversie, e che viene troppo spesso demonizzato. Il titolo, volutamente provocatorio, mira a sottolineare come spesso questa demonizzazione sia infondata. Prima di affrontare più in profondità l’argomento sono necessarie alcune precisazioni. Chi scrive parte dalla considerazione che ci siano almeno due tipi di austerità: una, per così dire, sana e una, invece, “cattiva” e fine a se stessa. La prima consiste, per esempio, nel tenere la finanza pubblica sotto controllo e ridurre l’enorme ammontare di debito pubblico che frena la crescita e rende vulnerabili a futuri shock. La seconda, invece, è quella dettata dalla patologica e compulsiva avversione alla spesa pubblica e alle misure espansive. In quest’ultimo atteggiamento non è difficile leggervi l’atteggiamento della Germania, che nel 2015 è arrivata a un deficit dello 0,7%, causato quasi esclusivamente dalla necessità di affrontare l’emergenza migranti. Le previsioni per il 2016 sono infatti già in diminuzione verso lo 0,2%. Inoltre, sempre in riferimento alla Germania, è bene sottolineare che lo stesso rigore non viene adottato nel tenere sotto controllo la bilancia commerciale, che è ampiamente oltre i limiti europei, tanto da meritarsi i rimproveri della Commissione.

Non potendo prendere in considerazione tutti gli aspetti dell’austerità, in questa analisi mi concentrerò sugli aspetti che più frequentemente la identificano: i vincoli di bilancio contenuti nel Patto di Stabilità e Crescita (+ Fiscal Compact). Le critiche che vengono mosse a questi vincoli sono principalmente due.

La prima riguarda i valori contenuti nel Patto: 3% deficit/PIL e 60% debito/PIL. Innanzitutto sgombriamo il campo da inesattezze, precisando che il 3% è condizione eccezionale, la norma prevede infatti il pareggio di bilancio1. Ad ogni modo, si afferma che questi valori sono anacronistici e non più adatti a una situazione modificatasi radicalmente, dal momento che sono stati elaborati negli anni novanta, in concomitanza con la firma del trattato di Maastricht. Niente di più vero. La critica è corretta, ma non nel senso che ci si aspetterebbe. Questi valori non sono venuti fuori dal nulla, ma si basano su un modello matematico elaborato da Domar. Il modello di Domar prende in considerazione tre variabili: la crescita del PIL, il deficit e il debito. Queste tre variabili, combinate insieme, danno il livello di deficit tale per cui, con un certo tasso di crescita, il debito è stabilizzato (cioè non aumenta). Quando venne firmato il Trattato di Maastricht, la crescita dei paesi europei era in media del 5%, mentre il livello dello stock del debito si aggirava, sempre in media, sul 60 %. Ne conseguiva che il livello di deficit sopportabile era del 3%. Inoltre questo deficit era pensato come spesa per investimenti e quindi sarebbe stato più che compensato da un ritorno futuro. Ad oggi la media del debito pubblico nell’UE 28 è circa l’87%, mentre la crescita del PIL è sotto il 2%, ma con vistose differenze tra Paesi. Mettiamo da parte le medie e prendiamo il caso dell’Italia: debito a quota 132 % e crescita a 1,1%, secondo le ultimissime stime della Commissione. La situazione è nettamente peggiorata. Quindi se la crescita diminuisce e il debito aumenta ne deriva che il deficit deve diminuire. Di conseguenza, se dovessimo aggiornare i valori dei vincoli di bilancio, dovremmo rivederli non per allentarli ma semmai per restringerli, cioè diminuendo il livello di deficit massimo.

La seconda critica riguarda il fatto che i vincoli di bilancio in generale penalizzerebbero gli investimenti, impedendo agli Stati di fare politica fiscale espansiva. Questa affermazione è scorretta per due motivi: uno di natura tecnica, l’altro di natura concettuale. Per prima cosa il Patto di Stabilità e Crescita ha previsto, soprattutto con le ultime riforme, ampi spazi di “flessibilità”. Infatti, senza entrare troppo nei dettagli, basta ricordare che è possibile un temporaneo aumento di deficit se questo è legato all’attuazione di riforme strutturali o ad investimenti nell’ambito delle strategie europee. Inoltre bisognerebbe ricordare che la parte correttiva (purtroppo) non si è mai dimostrata realmente capace di punire gli Stati trasgressori. Il cosiddetto “braccio correttivo” del Patto non è mai arrivato ad applicare sanzioni, nonostante le ripetute violazioni commesse nel tempo. La verità è che il mancato rispetto dei vincoli non comporta nessuna grave conseguenza. Il secondo motivo, più generale, è che ai vincoli di bilancio è sempre possibile applicare la golden rule, ovvero scorporare dal saldo di bilancio la spesa per investimenti, il che permetterebbe di finanziarli in disavanzo. A tutto ciò andrebbe aggiunta l’ovvia, ma forse non troppo, considerazione che non è necessario indebitarsi per fare investimenti. Possono essere finanziati anche in altro modo.

Per far sì che le cose finora esposte non rimangano un esercizio di pensiero lontano dalla realtà, è necessario chiudere questa breve analisi con un dato: +1,5 % , l’avanzo primario dell’Italia nel 2016. Il saldo primario non è altro che la differenza tra entrate ed uscite dello Stato, al netto degli interessi sul debito. Il che significa che la spesa che dobbiamo pagare per gli interessi ammonta a circa il 4% del PIL (una cifra astronomica). Se l’Italia non dovesse pagare alcun interesse, o se semplicemente il debito pubblico fosse più basso, l’Italia sarebbe non solo in pareggio, ma anche in avanzo. Oltre a pesare sulla crescita, assorbendo una grande quantità di risorse, un debito così elevato espone anche a forti speculazioni, come abbiamo sperimentato negli ultimi tempi. Questo ci dà la misura di quanto rilevante sia la necessità di contenere il deficit e ridurre lo stock di debito. E di quanto sia irresponsabile chi, in un momento delicato come questo, invoca il disavanzo come strumento di politica espansiva. In mancanza di una consapevolezza e di uno sguardo di lungo periodo da parte della classe dirigente, i vincoli dovrebbero essere ancora più rigidi, o quanto meno prevedere serie conseguenze per il mancato rispetto. Bisogna capire che indebitarsi è solo un modo di far pagare, con gli interessi, le spese (spesso improduttive) di oggi alle generazioni future. Ma si sa che le generazioni future, in quanto tali, adesso non votano.

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Fonte: The Economist

Andrea Baroncini

1 Per raggiungerlo gli Stati sono tenuti a rispettare il cosiddetto Obbiettivo di Medio Termine OMT