Femminismo islamico parte I: breve storia dei movimenti delle donne in Medio Oriente e Nord Africa

di Flavia Di Mauro 

Periodicamente, casi di cronaca più o meno drammatici sollevano il consueto polverone sulla condizione femminile nel mondo islamico. Di volta in volta, l’opinione pubblica italiana si accende intorno all’irrisolvibile quesito: l’Islam è una religione intrinsecamente e irrimediabilmente misogina? Ne deriverebbe, inevitabilmente, che l’insegnamento Coranico sia incompatibile con i valori della modernità. Tristemente, il rapporto tra ruoli di genere e Islam continua ad essere rappresentato in forma piuttosto stereotipata anche ai più alti livelli del dibattito, prescindendo molto spesso dal punto di vista delle dirette interessate.

Nel Gennaio 2016, il primo ministro conservatore Inglese David Cameron destò scandalo con l’annuncio di una nuova politica destinata alle donne musulmane residenti nel Regno Unito: il progetto mirava, tra le altre cose, a scardinare la “tradizionale remissività” delle islamiche[1]. Al vertice opposto dello spettro politico, il filosofo marxista Slavoj Žižek — l’individuo forse meno conservatore d’Europa — ammonisce le sinistre occidentali a non rinunciare alle proprie conquiste culturali in nome di un multiculturalismo ottuso in cui tutte le vacche sono nere; eloquentemente, molta della sua argomentazione ruota intorno all’emancipazione femminile («[nell’Islam] la donna in quanto tale è uno scandalo ontologico»[2]). Eppure, sebbene il discorso di Žižek inquadri molto bene alcuni punti deboli del multiculturalismo “politicamente corretto” liberal, la sua speculazione sull’Islam si articola su un soggetto piuttosto ambiguo: un musulmano generico, vago, adesso ultra-moderno, adesso del tutto astorico. E le donne musulmane? In che modo partecipano a questo dibattito? L’oppressione che molte donne sono costrette a vivere in nome dell’Islam è un fenomeno ben noto a tutti, e sono molte le intellettuali che, cresciute in contesto Islamico, hanno rigettato aspramente il loro credo. Tuttavia, pur riconoscendo quest’innegabile realtà, il legame di questa condizione con l’insegnamento coranico è quanto meno ambiguo. Questo articolo è il primo di due con i quali spero di gettare un po’ di luce su un universo alternativo e meritevole di attenzione: il“femminismo Islamico”.

Con il termine femminismo Islamico si usa designare un fenomeno piuttosto variegato che, soprattutto a partire dagli anni ’80/’90, si unisce al più vasto contesto dei movimenti per i diritti delle donne attivi nel mondo islamico. Sebbene sia questo il vero e proprio protagonista dei miei articoli, alcune caratteristiche del movimento sono comprensibili solamente nel confronto con i femminismi laici diffusi nei paesi MENA nell’ultimo secolo. Questo primo articolo sarà dunque dedicato prevalentemente al background storico sul quale si è costruito il femminismo islamico, ricostruendone brevemente le grandi tendenze. Proprio come per i femminismi occidentali, infatti, anche nel mondo Islamico l’attivismo femminile si caratterizza per una certa varietà di espressioni che nel corso dell’ultimo secolo si sono di volta in volta imposte all’attenzione pubblica. La ricercatrice Sara Borrillo suggerisce una corrispondenza tra varie forme di attivismo per i diritti delle donne ed elaborazioni dell’Islam in Medio Oriente e Nord Africa[3]. Nel caso dei primi femminismi laici il discorso si articolò intorno alla frattura tra riformismo modernista e ritorno alla tradizione islamica.

I movimenti di emancipazione femminile nel mondo arabo fanno la loro comparsa alla fine dell’ ‘800 in seno alla Nahdah — un movimento composto da intellettuali di vario credo interessati alla rinascita sociale e culturale del mondo arabo. In principio, l’emancipazione femminile si presenta come il passo necessario per la modernizzazione, spesso in senso occidentalizzante, delle società arabe. Una figura particolarmente rappresentativa di questo periodo fu l’avvocato egiziano Qasim Amin, il cui testo Tharir al-mar’a (la liberazione della donna) è considerato il primo grande scritto femminista del mondo arabo. Le donne, argomentava Amin, devono essere educate in modo tale da poter contribuire nel migliore dei modi alla vita pubblica e privata dello stato moderno; momento fondamentale di questo percorso è l’abolizione dell’uso del velo, massimo ostacolo all’emancipazione femminile e al progresso dello stato-nazione[4]. Al centro delle preoccupazioni di Amin e di molti suoi contemporanei, dunque, non c’era tanto la condizione femminile in quanto tale bensì il progresso nazionale — una posizione che, come vedremo nella seconda parte, gli costerà le critiche di numerose femministe islamiche.

Anche ai tempi di Amin, si noti, non mancarono donne impegnate a fondo nel progetto emancipatorio — vedi Malak Hifni Nasif o Mayy Ziyada — ma bisognerà aspettare gli anni ’20 perché questi attivismi individuali diano luce a forme politiche organizzate. È a partire da questo momento che il dibattito, fino ad allora dominato da pochi individui spesso di sesso maschile, comincia a trasformarsi in vero e proprio attivismo femminile. Nel 1923 si forma in Egitto, sotto la guida di Hoda Shar’awi, l’Unione Femminista Egiziana, la prima organizzazione esplicitamente femminista del paese. Un anno dopo, in Palestina, fa la sua comparsa l’Associazione per la rinascita delle donne, seguita nel 1927 dall’Associazione delle Signore Arabe, costituitasi a Gerusalemme. Anno dopo anno, organizzazioni simili si diffusero in tutti i paesi della regione, affiancando a numerose peculiarità locali un nucleo forte di elementi comuni. Si trattava, in larghissima parte, di movimenti di ispirazione decisamente laica e spesso panarabista. Femminismo e anticolonialismo, emancipazione femminile e liberazione nazionale, erano discorsi profondamente intrecciati, imprescindibili l’uno dall’altro e reciprocamente funzionali[5]. La parabola dell’Unione Femminista Egiziana risulta particolarmente rappresentativa di questo aspetto. A riprova del legame tra anticolonialismo e femminismo, l’UFE si costituisce nell’anniversario di una manifestazione anti-britannica tenutasi il 16 marzo 1919: in quell’occasione, per la prima volta, si era registrata una significativa presenza femminile ad un evento politico. Esattamente quattro anni dopo, le donne egiziane si riunivano sotto la guida di Hoda Shar’awi allo scopo di ottenere il diritto all’istruzione, al voto e la riforma del codice dello statuto personale. Un impegno politico capillare e una leadership particolarmente carismatica portarono all’UFE la notorietà internazionale. Tra gli altri, grande risonanza ebbe il gesto di Hoda Shar’awi e Sizah Nadarawi che, tornate in patria dal IX congresso dell’International Woman Suffrage Alliance, si tolsero il velo scendendo dal treno, nello scrosciare di applausi di quante le accoglievano.

Dopo un ventennio di incessanti attività, gli anni ’50 e ’60 segnarono una drastica cesura per il discorso femminista egiziano, vittima di una repentina e prepotente marginalizzazione. Ironicamente, i discorsi sull’emancipazione femminile furono relegati in secondo piano rispetto alla realizzazione del socialismo arabo, a discapito di tutte le donne che, per anni, avevano contribuito alla lotta per l’indipendenza. Com’è potuto accadere? A giudizio della studiosa Leila Ahmed, Sha’rawi, che preferiva il francese all’Arabo e vantava posizioni in parte filo-occidentalizzanti, appariva distante dal sentire comune[6]. Similmente a quanto accadde in Egitto, il Codice di Statuto personale Marocchino del 1957 non riconobbe alle donne il loro contributo all’edificazione dello Stato, divenendo quello che Borrillo definisce «la cassaforte del patriarcato»[7]. In Marocco come in Egitto le donne si erano imposte anni prima sul palcoscenico politico e avevano versato il loro contributo alla causa indipendentista. Qui, sebbene le donne fossero attive in politica sin da inizio secolo, il primo movimento propriamente femminile, l’Associazione Sorelle della Purezza, si costituì nel 1946. Tra gli obiettivi principali del gruppo figuravano l’istruzione obbligatoria femminile, l’abolizione della poligamia e la titolarità della testimonianza legale. L’organizzazione, di carattere borghese e piuttosto elitista, non ebbe la forza di opporsi al codice del 1957, registrando una sconfitta particolarmente dura. Tuttavia, il dado era tratto: il processo di accesso all’istruzione e al lavoro extradomestico, per quanto lento, favorì la presa di coscienza delle donne sui propri diritti[8]. Il femminismo marocchino rinacque negli anni ’60 in seno ai movimenti studenteschi e sindacali e presso i partiti progressisti. Nonostante il clima repressivo degli anni ’60/’70, le idee femministe riuscirono a diffondersi ed esercitare una certa influenza fino a raggiungere l’enorme varietà di contenuti con cui ci confrontiamo oggi.

I femminismi MENA, lo abbiamo visto, seguono ovviamente percorsi peculiari, ma inglobano nell’insieme una serie di similitudini e tratti comuni. A posteriori, si potrebbe avvertire una contraddizione, una sorta di debolezza, nel femminismo laico di prima ondata: da un lato, profondamente impegnato nella liberazione dal giogo coloniale, dall’altro sospettamente affine al pensiero occidentale. Ovviamente, con ciò non s’intende sminuire l’enorme valore di questi movimenti, fondamentali nell’avvio del percorso di emancipazione, quanto piuttosto rintracciare le radici della crescente diffusione della critica di genere di ispirazione Islamica. Nelle parole di Borrillo «uno degli ostacoli all’efficacia del movimento per i diritti delle donne, soprattutto tra la fine degil anni ’70 e l’inizio degli ’80, risiede nella problematicità dell’adesione delle militanti al “femminismo”, generalmente considerato simbolo di occidentalizzazione e laicità, dunque ideologia anti-islamica…»[9]. È su queste premesse che il femminismo islamico, che pure aveva avuto qualche esponente ante-litteram, comincia a prosperare. In questo modo, nel fuoco incrociato della reislamizzazione della società e la sempre più diffusa fobia del musulmano, le donne Islamiche scoprono nell’Islam un potente strumento liberatorio. Come e perché, lo vedremo nel prossimo articolo.

 

Riferimenti:

[1] https://www.telegraph.co.uk/news/uknews/terrorism-in-the-uk/12104556/David-Cameron-More-Muslim-women-should-learn-English-to-help-tackle-extremism.html

[2] Žižek S., L’islam e la modernità. Riflessioni blasfeme, p. 77, Adriano Salani Editore, Milano, 2015; il significato di questo passaggio è molto più complesso di quanto potrebbe sembrare. Poche righe prima, commentando il ruolo della moglie Khadīa nella vita di Maometto, Žižek scrive così «L’elemento chiave della genealogia dell’Islam è questo passaggio della donna come colei che sola può accertare la Verità stessa […] che si interpone tra essi [gli uomini] e Dio come una macchia inquietante e che perciò dev’essere cancellata, occultata, controllata…». Il femminino incarnerebbe la quella che Eric Sartner definisce “storia spettrale”, l’innominabile che deve essere rimosso per convalidare la tradizione simbolica esplicita.

[3] Borrillo S., Femminismi e Islam in Marocco. Attiviste laiche, teologhe, predicatrici, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2017

[4] Pepicelli R., Femminismo Islamico. Corano, diritti, riforme, Carocci Editore, Roma, 2016

[5] Ibidem, p. 38

[6] Ibidem, p. 40

[7] Borrillo S., op. cit., p.59

[8] Ivi.

[9] Ibidem, p. 3