Gli Stati Uniti nell’era Trump: intervista a Francesco Costa

Ad un anno e mezzo dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca, cerchiamo di analizzare la politica e la società statunitensi con Francesco Costa, vicedirettore de Il Post ed esperto della politica americana.

Intervista a cura di Fabio Seferi

 

Iniziamo tirando un po’ le somme sull’amministrazione Trump. Ad un anno e mezzo dal suo insediamento alla Casa Bianca, possiamo dire che non ha raccolto molti consensi in quanto a politiche partendo dal c.d. Muslim Ban, al rapporto con i media e le fake news, l’influenza russa ecc. Quindi, un anno e mezzo dopo che voto possiamo dare a questa amministrazione?

Il voto dipende molto da quello che si chiede a questa amministrazione. Ovviamente chi ha votato Trump è molto contento e quindi darà un voto molto alto; chi non lo ha votato invece no. Rispetto agli effetti dei suoi provvedimenti da un punto di vista oggettivo, se possibile, probabilmente è troppo presto. Per esempio, il più grande successo legislativo di Trump è stata l’approvazione della riforma fiscale: è entrata in vigore alla fine del 2017 e gli effetti ancora non si vedono. C’è da considerare anche che l’economia statunitense è enorme, è un’economia grande molto più di quella europea, che coinvolge 300 milioni di persone. Quindi gli effetti di questa riforma, buoni o cattivi, si vedranno più avanti. Lo stesso vale per i dazi: la sola introduzione dei dazi ha reso molto felici i sostenitori di Trump. Però gli stessi sono stati molto criticati dagli oppositori. Ma stanno funzionando o no? Anche questo evidentemente è un po’ presto per dirlo. Perché non sappiamo ancora quanto le importazioni statunitensi stiano soffrendo per i contro-dazi della Cina, non sappiamo se davvero sia stata rilanciata l’occupazione nel Midwest, la regione negli Stati Uniti che ha sofferto di più dal punto di vista economico la concorrenza delle imprese straniere. Quindi, secondo me, dal punto di vista di un osservatore esterno la cosa più saggia sarebbe sospendere per il momento il giudizio per quello che riguarda la politica interna. Sulla politica estera si può fare già un discorso più concreto, perché il rifiuto della firma dell’accordo di Parigi e la violazione di fatto dell’accordo sull’Iran sono due momenti che hanno avranno delle conseguenze molto profonde e che sicuramente, secondo me, rendono il mondo un posto meno sicuro di quello che era prima.

 

Soffermiamoci di più sulla politica estera. All’inasprimento dei rapporti con l’Iran ha fatto da contraltare una distensione dei rapporti con la Corea del Nord, che sarebbe sembrato impossibile fino a pochi mesi fa. Ci troviamo di fronte ad una situazione strana: l’amministrazione Trump ha influenzato la possibile risoluzione del conflitto nella penisola coreana, mentre di fatto ha anche causato una minaccia alla sicurezza nazionale dal nulla (con l’uscita dall’accordo per il nucleare iraniano).

Sono due scenari e due contesti molto diversi. L’accordo sull’Iran era osteggiato dai conservatori americani ma anche soprattutto da Israele. Il partito repubblicano è molto legato ad Israele e alle sue posizioni. Un paio di anni fa hanno invitato Netanyahu, il quale ha tenuto un discorso molto applaudito al Congresso in cui questo accordo veniva contestato. Per quello che sappiamo noi, però, questo accordo con tutti i suoi limiti era un accordo che funzionava. Non si basava sulla fiducia, si basava sulle sanzioni più rigide e severe che possano essere mai introdotte in un accordo del genere. Era un accordo che non coinvolgeva solo gli Stati Uniti ma anche l’Europa. Quindi con la reintroduzione di queste sanzioni e, soprattutto, con il rischio più che mai concreto che in Iran la fazione dei conservatori, più vicini all’Ayatollah, abbia la meglio nelle prossime elezioni, l’ipotesi di destabilizzazione dell’area è molto concreta per tutti. La situazione della Corea del Nord è ancora di difficle lettura, nel senso che non è avvenuta tuttora una pacificazione, ma solo dei gesti simbolici molto importanti ma che simbolici rimangono. Nessuno ha capito nemmeno perché sia successo, perché Kim Jong-un ed il regime della Corea del Nord da un giorno all’altro sono passati dal fare i test missilistici a mandare segnali distensivi. C’entrano sicuramente le pressioni della Cina, anche se Cina e Stati Uniti non sono in ottimi rapporti. Probabilmente c’entra anche una notizia che è uscita nei giornali ma di cui si è parlato poco, cioè che il sito nucleare della Corea del Nord, che Kim Jong-un chiuderà con una grande cerimonia alla fine del mese, è andato distrutto durante un incidente. Quindi loro hanno perso le proprie strutture e dopo hanno dato segnali relativi ad una possibile pace. Io aspetterei prima di essere ottimista su quella risoluzione della crisi, naturalmente sperando che invece si avveri.

 

Ritornando alla politica interna, quest’anno è importante perché ci sono le midterm elections (elezioni di metà mandato) a fine anno. Dobbiamo aspettarci un cambio dello spettro politico statunitense in queste elezioni?

Può esserci un grosso sconvolgimento, ma non è detto che sia una sorpresa. La storia americana ci dice che, salvo alcuni casi davvero eccezionali, alle elezioni di metà mandato il corpo elettorale è molto diverso da quello delle elezioni presidenziali. Sappiamo anche, di nuovo ce lo dice la storia, che nelle elezioni di metà mandato il partito del Presidente va quasi sempre male e perde quasi sempre molti seggi. Quindi io credo, salvo sorprese naturalmente, che i democratici otterranno una certa vittoria alle elezioni di metà mandato. Poi bisognerà vedere quanto larga ed è una cosa non da poco perché i democratici potrebbero riconquistare la maggioranza alla Camera ma magari non al Senato, o viceversa. Oggi sarebbe più facile che la ottengano alla Camera e non al Senato. Di quanto possa essere larga questa vittoria è tutto da vedere. Però i democratici sicuramente recupereranno dei seggi. Credo però che questo non ci dica granché in vista delle presidenziali del 2020. E’ sempre stato così: in America le midterm le vince sempre il partito d’opposizione perché tutte le elezioni che arrivano a metà di una fase di governo, anche in Europa, vedono il governo un po’ affaticato e i suoi sostenitori un po’ logori. Le presidenziali sono tutta un’altra storia, altre regole, altri candidati, altro clima generale. Cambia proprio tutto.

 

Parlando di presidenziali, appunto, c’è già qualcuno in campo democratico pronto a raccogliere la sfida? Un’altra domanda correlata riguarda il ruolo di Paul Ryan all’interno dell’establishment repubblicano, il quale aveva detto che non avrebbe concorso per la rielezione e non sarà più Speaker of the House (Presidente della Camera): l’establishment repubblicano sta forse cercando di tenersi Paul Ryan in disparte per poterlo usare poi come carta per le presidenziali?

Innanzitutto bisogna tenere presente che in America i partiti non esistono davvero, nel senso che sono le persone a fare i partiti, non è che ci sia un consiglio direttivo dei repubblicani che prende le decisioni strategiche, o di linea, o sui candidati. Paul Ryan ha evidentemente deciso di farsi da parte. Credo non perché punti o miri alle elezioni del 2020 naturalmente, ma perché è ancora molto giovane e quel ruolo lì è un ruolo molto logorante. Poi Paul Ryan perderebbe comunque il ruolo di Speaker della Camera a novembre. Lui così facendo si tira fuori, schiva questo proiettile e aspetta magari il 2024 o un’altra situazione per lui favorevole. Rispetto alla questione dei democratici: si stanno muovendo sì, in parecchi. Credo che saranno sempre di più anche perché la vittoria probabile alle elezioni di metà mandato e la fragilità di un candidato come Trump, che comunque è un candidato che ha vinto le elezioni nel 2016 per un incidente della storia – ha preso 3 milioni di voti in meno di Hillary Clinton, ha vinto il Michigan per 10 mila voti – dà forza e coraggio a molti democratici che ci proveranno, pensando di farcela con una relativa facilità. Secondo me però rischiamo di sottovalutare Trump, il quale non è per niente battuto in partenza, anche perché gli americani tendono a rieleggere i propri Presidenti. Trump ha comunque una base elettorale molto consolidata, che si informa solo da fonti di parte e che è distribuita sul territorio statunitense in un modo più razionale e più utile nel senso delle regole delle elezioni rispetto alla base elettorale del Partito Democratico.

 

Secondo te qual è il problema più grande che affligge la società americana? Ovviamente una lista di questi problemi contiene senz’altro il controllo delle armi, la situazione delle minoranze, la grande diffusione degli oppioidi, la situazione della Rust Belt (regione degli Stati Uniti in cui sono concentrate tutte le vecchie aziende industriali e manifatturiere), giusto per citarne alcuni.

Sicuramente sono quattro grossi problemi. Io ti direi uno che abbraccia almeno un paio di quelli che hai citato tu e non è un problema in sé ma lo diventa: l’America è un paese che diventa ogni anno che passa sempre meno bianco, sempre più etnicamente variegato. Nel Sud soprattutto, la parte a sudest diventa sempre più popolata da afroamericani; la parte a sudovest sempre più popolata da latinoamericani. Questo grande cambiamento, che è un cambiamento che porta anche molta vitalità nella forza lavoro e nella cultura statunitensi, naturalmente viene visto come minaccioso e preoccupante da parte di moltissimi bianchi i quali vedono perdere il loro status, vedono cambiati i loro quartieri e le loro città. Questo conflitto è alla base di tanti conflitti economici, che hanno a che fare con l’immigrazione ecc. La risoluzione di questi conflitti in un paese fortemente diseguale come gli Stati Uniti ha delle ricadute anche sull’economia, per esempio nella Rust Belt stessa o sulla stessa epidemia degli oppioidi che colpisce certe zone e certe frazioni demografiche in particolare; non parliamo delle armi, la carcerazione – l’America è il paese con il più alto tasso di carcerati in base alla popolazione tra i paesi sviluppati; i carcerati americani sono in grandissima maggioranza afroamericani. Quindi su tutto ti direi la questione razziale. Mi sembra che la questione razziale sia alla base di moltissimi, non tutti, ma moltissimi problemi che oggi hanno gli Stati Uniti.