Il “pantano” libico e l’interesse italiano: intervista a Michela Mercuri

 

Intervista a cura di Fabio Seferi 

Oggi parliamo di Libia con Michela Mercuri (qui potete trovare il suo blog), docente del Corso in Terrorismo e le sue mutazioni geopolitiche alla SIOI (Società italiana per le organizzazioni internazionali di Roma), insegna Geopolitica del Medio Oriente all’Università Niccolò Cusano e collabora con il Centro Italiano per la pace in Medio Oriente (CIPMO) di Milano. Di recente pubblicazione la sua monografia Incognita Libia.

 

Innanzitutto la ringrazio per la sua disponibilità a concederci questa intervista. Tra i suoi ambiti principali di interesse troviamo la Libia, un “dossier” ancora di vitale importanza per l’Italia, nonché uno dei più difficili da leggere. Un contesto che il nostro stesso comparto intelligence ha definito come “segnato da rotture e particolarsmi” (Relazione SISR 2017). Come si inserisce in un ambiente simile la tutela degli interessi nazionali italiani, considerando anche l’operato di punta di Eni nella regione? 

La Libia è da sempre un interesse nazionale prioritario per l’Italia, fin dagli anni di Gheddafi e se vogliamo ancor prima. Noi siamo stati tirati in ballo nel 2011 dalla Francia nella coalizione internazionale che è intervenuta in Libia per defenestrare Gheddafi e abbiamo letteralmente pagato per condurre una guerra contro i nostri interessi. Voglio ricordare che in quel periodo venivano estratti dalla Libia 1.500.000 barili di petrolio al giorno e la maggior parte di quelli estratti da imprese straniere venivano appunto estratti dall’Eni che aveva importanti interessi nel paese. Oggi, nonostante l’azione internazionale, l’Eni è l’unica impresa internazionale ad estrarre ancora petrolio in Libia. L’Eni è presente in Libia fin dagli anni ’70. Nel 1971 Aldo Moro andò in Libia ad incontrare Gheddafi, poco dopo la cacciata degli italiani dal paese anche per supportare gli interessi dell’Eni. Era un periodo in cui la politica e l’economia in Italia riuscivano a procedere ancora in maniera sinergica, in qualche modo c’era ancora una sorta di sistema-paese. Questo negli ultimi anni è venuto a mancare, ma nonostante tutto l’Eni riesce ancora a lavorare in Libia stringendo accordi con le singole milizie che sono gli attori che oggi controllano i pozzi del petrolio: infatti non c’è un’autorità centralizzata che controlla questi pozzi come c’era in passato. Prima c’era la NOC e comunque c’era un leader politico che era Gheddafi, il quale riusciva in qualche modo a garantire un dialogo univoco. Oggi chiaramente ci sono mille milizie che governano i pozzi petroliferi con cui l’Eni è scesa a patti, riuscendo a portare avanti le sue attività, essendo l’unica impresa internazionale ad estrarre stabilmente petrolio nel paese: riesce addirittura ad estrarre 4/500.000 barili al giorno, con tutte le difficoltà del caso perché fare accordi con le milizie non è sicuramente il metodo più agevole per poter lavorare in un territorio.

 

Negli ultimi anni, considerando anche la situazione in campo, si era fatta largo l’ipotesi di una suddivisione della Libia nelle tre storiche regioni geografiche che la compongono: la Tripolitania, la Cirenaica e il Fezzan, con altri paesi come garanti di ciascuna nuova “unità amministrativa”. Andando indietro nel tempo, possiamo rintracciare l’identico progetto nel compromesso Bevin-Sforza, respinto dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 1949, preferendo l’unità del paese maghrebino. Secondo lei, una tale suddivisione del paese potrebbe essere praticabile per la futura stabilità della regione?

La Libia storicamente è sempre stata divisa simbolicamente in tre grandi regioni: la Tripolitania, la Cirenaica ed il Fezzan. Quando c’era l’Impero Ottomano, quindi ancora prima che vi fosse la Libia e che vi fossero queste regioni, tra la Tripolitania e la Cirenaica c’erano già delle profonde differenze:  Tripoli era il porto mediterraneo più vicino al deserto, era una città portuale molto tribale; mentre la Cirenaica era caratterizzata dalla forte influenza della Senussia che si era instaurata in questa zona ed aveva conferito proprio a quest’area una maggiore coesione. Oggi questa suddivisione è stata più volte ripresa da molti osservatori e commentatori internazionali come possibile soluzione per il futuro della Libia, ma io credo che stante l’attuale divisione che c’è nel paese (divisione non tanto regionale quanto tra milizie e gruppi di potere) questa soluzione non potrebbe funzionare molto. Oggi la Libia non è tanto divisa in due regioni ma tra milizie, gruppi di potere, ma anche attori locali come ad esempio i sindaci e le municipalità che oggi sono gli attori più forti nel paese. Oggi si va in Libia a parlare con i sindaci e le municipalità, che rappresentano un potere in cui la popolazione in qualche modo si riconosce. Quindi io credo più che una soluzione per la stabilizzazione del Paese passi per un dialogo inclusivo tra i vari attori locali.

 

Negli ultimi giorni si sono susseguite notizie e smentite riguardanti lo stato di salute del generale Khalifa Haftar. Quanto è importante la sua figura per l’equilibrio delle forze in campo? Senza di lui il governo di Al Sarraj potrebbe avere più possibilità di estendere il suo controllo anche ai territori ad est?

Che piaccia o meno Haftar era una figura importante, sicuramente nell’est libico. Era un connettore di alleanze, perlomeno di alcune milizie o gruppi di potere all’interno di una porzione della Cirenaica. La sua morte, o comunque la sua malattia che potrebbe presumibilmente comportare l’impossibilità di tornare al potere, sicuramente sono la precondizione per l’esacerbarsi delle condizioni di insicurezza soprattutto nell’est del paese, perché la sua assenza va a creare un vuoto di potere che verrà riempito dalle milizie. Questo sta già accadendo, si è già aperta una lotta tra le varie milizie per conquistare porzioni di potere lasciate aperte dal generale Haftar. Altra considerazione fondamentale da fare è che Haftar in questo momento sarebbe ricoverato in Francia. La Francia è un’alleata storica del generale e questo fa pensare al fatto che sia stato portato d’urgenza in Francia come se la Francia voglia comunque decidere quando notificare un’ipotetica dipartita del generale per cercare nel frattempo di creare un sistema di allenanze interno a lei favorevole. Infatti per la Francia sarebbe comunque una debacle perdere l’alleanza con gli attori dell’est del paese che fino a questo momento hanno garantito un posto al sole ai vari leader che si sono succeduti alla guida dell’Eliseo. Questo dal mio punto di vista non porterà comunque ad un rafforzamento di Sarraj, cioè dell’altro attore libico che controlla o quantomeno tenta di controllare una parte dell’ovest, perché Sarraj ed Haftar sono sostenuti da gruppi completamente diversi. Però il depotenziamento di Haftar potrebbe comportare solo un’esarcerbarsi dei conflitti nell’est del paese.

 

Parliamo adesso di flussi migratori. Il Memorandum d’Intesa italo-libico dell’anno scorso ha di fatto portato ad una diminuzione degli sbarchi in Italia, con pesanti ripercussioni per le condizioni dei migranti stessi detenuti sulle coste libiche. Senza una vera politica di ampio respiro nella regione nordafricana e saheliana, non rischiamo un effetto bottleneck che a medio-lungo termine può peggiorare la situazione?

Evidentemente gli sbarchi sembrerebbero diminuiti nell’ultimo periodo. Le proiezioni del Ministero dell’Interno dicono che fin qui gli sbarchi di migranti provenienti dalla Libia sono diminuiti adirittura dell’80% rispetto allo scorso anno. Però a che prezzo questo è avvenuto? Chiaramente i migranti sono rimasti bloccati in Libia, con una politica di brevissimo respiro perché noi abbiamo finanziato la guardia costiera libica ma anche alcune milizie per tenere appunto i migranti nel paese. Quindi il prezzo che abbiamo pagato per ricevere meno migranti sulle nostre coste è stato quello di vedere migliaia di migranti letteralmente rinchiusi in Libia. Si parlerebbe di un numero di esseri umani che va dalle 400.000 alle 700.000 unità. Ci sono circa 31 centri di detenzione ufficiali in cui sarebbero racchiusi, circa 20.000 migranti (secondo stime UNHCR ed ONU) ma ci sarebbero molti di più che sono in Libia e di cui non conosciamo né la condizione né la sorte. Quindi è evidente che servano politiche diverse, che vadano al di là non soltanto di queste politiche tampone ma anche dei rimpatri e dei ricollocamenti che in questo momento non hanno dato assolutamente i risultati sperati. Servono politiche di lungo respiro, servono maggiori investimenti nei paesi di partenza e nei paesi di transito. La Libia è un paese di transito, purtroppo però è un paese instabile quindi possiamo lavorare davvero poco con la Libia e dobbiamo supportare di più invece gli altri paesi di transito, come ad esempio il Niger, o gli stessi paesi di partenza dei migranti con maggiori investimenti nella cooperazione allo sviluppo. Chiaramente in questo caso servono maggiori risorse, ma serve anche una maggiore coesione all’interno dell’Unione Europea che putroppo è sembrata mancare fin qui.

 

Con la sconfitta quasi totale del c.d. Califatto islamico (il Daesh, per intenderci) nel “Syrak”, la Libia è vista da molti come una sorta di safe haven per il jihadismo mondiale, dove d’altronde si sovrappongono gruppi jihadisti non solo nordafricani ma provenienti anche dalla regione sahelo-sahariana. Proprio per questo, lo stesso Daesh si deve di volta in volta confrontare anche con altri gruppi islamisti, spesso di origine qaidista come Ansar al Sharia. Quante possibilità ha davvero il Daesh di insediarsi in un contesto simile? E quante possibilità ha lo stesso jihadismo di intaccare la rigida suddivisione tribale della società libica?

Lo Stato Islamico è stato espunto dalla roccaforte di Sirte nel 2016, però i combattenti dello Stato Islamico (intorno alle 5.000 unità secondo i più) che erano presenti a Sirte non sono morti. Molti sono fuggiti verso il sud, verso il Fezzan, per cercare in qualche modo di ricompattarsi, anche unendosi ad altri gruppi jihadisti presenti nel paese, come ad esempio Al-Qaida nel Maghreb Islamico. Potrebbero riorganizzarsi, ma soprattutto potrebbero essere utilizzati come manovalanza dalle altre organizzazioni jihadiste presenti nel territorio. Da questo punto di vista, va detto che l’ISIS non ha avuto e non è destinato ad avere una grande presa in Libia perché in questo paese non ha potuto sfruttare le divisioni settarie che ha utilizzato per attecchire in Iraq e in Siria. E poi, soprattutto, la Libia è una paese che ha una forte connotazione tribale, ha una visione dell’Islam al 90% sunnita, e quindi anche per questo motivo difficilmente ci potrà essere una rinascita dello Stato Islamico. Va detto anche sotto questo punto di vista che specialmente a Sirte, che era un-ex roccaforte dei gheddafiani, lo Stato Islamico ha visto molte adesioni proprio degli ex-gheddafiani i quali hanno visto nello Stato Islamico un modo per poter in qualche modo risorgere e tornare ad avere un peso specifico nel paese. Quindi le adesioni non sono state tanto per motivazioni di condivisione dell’ideale del Califfato quanto piuttosto strumentali per poter rinconquistare un posto nel panorama libico.