La lunga strada da Parigi a Marrakesh

L’adozione per consenso da parte di quasi tutti gli stati del mondo, nello scorso dicembre, dell’accordo di Parigi sul clima è stata celebrata allora come una vittoria della diplomazia climatica internazionale – con particolare enfasi della presidenza Hollande-Fabius. Toni simili furono assunti anche dal Segretario Generale Ban Ki-Moon, ed in effetti il nuovo accordo può essere valutato come sufficientemente innovativo e, soprattutto, implementabile. Nel preambolo, il testo cita esplicitamente l’ambizioso obiettivo di contenere l’aumento della temperatura globale entro +1,5°C rispetto ai livelli pre-industriali. Oltre ad una auspicata maggiore attenzione ai diritti umani, alle questioni di genere ed alla difesa degli stati più vulnerabili dal punto di vista climatico (come, ad esempio, gli stati insulari del Pacifico, coalizzati nella formazione AOSIS), il nuovo accordo tiene in vita e cerca di rivitalizzare meccanismi di trasferimento finanziario già visti negli sviluppi del Protocollo di Kyoto per come implementati a Varsavia nel 2013, ed apre ad una governance più inclusiva sulla base di contributi nazionali obbligatori – per la prima volta, per tutti.

La potenziale forza, ma anche la principale scommessa nella struttura del nuovo quadro di governance climatica mondiale risiede negli INDC (Intended National Determined Contributions), o pledges, ossia nelle proiezioni di abbattimento delle emissioni presentate da ogni paese. Proiezioni che, secondo il testo di Parigi, dovranno essere sottoposte a revisione ogni cinque anni. Previsioni che, a detta di alcuni studiosi del settore, sommate portano già oggi ad un quadro aggregato ben lontano dal poter raggiungere non soltanto l’ambizioso obiettivo degli +1,5°C, ma addirittura da quello minimo e vincolante dei +2°C. Il nuovo accordo riesce quindi da un lato a coinvolgere per la prima volta tutti i paesi del mondo in senso attivo, dato che ogni stato è tenuto a presentare ed implementare le proprie pledges, che rappresentano azioni reali di abbattimento delle emissioni; dall’altro, la discrezionalità con la quale ogni stato può costruire, presentare ed implementare il proprio INDC lascia ampio margine al mancato raggiungimento degli obiettivi indicati nel preambolo dell’accordo, e quindi al fallimento di un accordo atteso almeno dal disastro diplomatico di Copenhagen 2009.

Sebbene la questione principale da un punto di vista di impatto climatico e quindi di policy globale graviti dunque attorno all’attendibilità dell’impegno dei singoli stati, ed all’adeguatezza delle proiezioni di abbattimento di ognuno, pare che il tema principe dei primi negoziati di transizione fra le due COP (Parigi 2015 e Marrakech 2016) sia quale criterio utilizzare nella ripartizione, sia in entrata che in uscita, dei cento miliardi di dollari promessi dai paesi sviluppati a quelli in via di sviluppo nell’ambito della conferenza di Parigi – il noto “100 billion goal”. Un trasferimento cash di risorse che nella volontà dei ricchi inquinatori storici dovrebbe aiutare i paesi più poveri a produrre politiche efficaci di adattamento e implementazione delle policies. Un trasferimento annunciato, e poi inserito negli atti, che oggi deve trovare un proprio senso operativo a fronte della grande visibilità mediatica che l’operazione ha ovviamente giocato.

Secondo alcuni commentatori vicini alle delegazioni tecniche riunitesi nelle scorse settimane a Bonn, in Germania, il tema della ripartizione dei cento miliardi pare dominare l’agenda e questo potrebbe compromettere l’esito della prossima COP in Marocco, che il governo di Rabat vorrebbe come un momento operativo e non interlocutorio, considerando che ogni anno perso può potenzialmente vanificare quanto stabilito a Parigi per il periodo post-2020 – oltre che dal problema climatico, il governo marocchino sarà plausibilmente preoccupato anche dal proprio ritorno d’immagine nel caso in cui la COP raggiunga effettivamente gli obiettivi prefissati.

Nei giorni scorsi, intanto, Richard Martin ha scritto un interessante articolo dal titolo “A sei mesi dall’Accordo di Parigi, stiamo perdendo la battaglia sul cambiamento climatico” sulla MIT Technology Review. A dispetto del titolo, Martin lascia spazio alla speranza e perora la causa della mitigazione dal basso, ossia da parte delle amministrazioni locali ed in particolare quelle delle grandi città e metropoli del mondo, che da sole producono il 70% delle emissioni inquinanti legate alla produzione di energia. Mitigazione dal basso peraltro invocata anche da voci eminenti dell’economia contemporanea, in primis il premio Nobel Elinor Ostrom che solo pochi anni fa (nel 2010, uno dei suoi ultimi scritti) riproponeva in termini contemporanei il concetto di policentricity adattandolo alle politiche ambientali internazionali. Produzione e domanda aggregata di energia sono destinate a crescere da oggi al 2050, secondo l’ultimo rapporto della International Energy Agency: una maggiore produzione di energia, a parità di tecnologia e infrastruttura, difficilmente potrà coincidere linearmente con l’auspicata riduzione delle emissioni inquinanti.

In un contesto determinato quindi da grande incertezza, l’ambizioso obiettivo della riduzione del riscaldamento globale entro i due gradi pare poter essere raggiunto, ma – anche a detta degli esperti internazionali e del capo dell’IEA, Fatih Birol – solo a patto che si metta in atto un vero e proprio “massive change in the energy system”. Cambiamento che non potrà prescindere da una revisione e ristrutturazione della produzione e distribuzione energetica a livello mondiale, da subito.

Jacopo Bencini