Made in Vietnam: viaggio fra le donne dell’industria tessile

Stavo seguendo un amico, un pomeriggio, qualche mese fa, ad Hanoi. Voleva portarmi in un posto per mostrarmi qualcosa.
Dalla strada trafficata, schivando bici e motorini, entrammo in un negozio, il cui passaggio era ostruito da spazzatura, sgabelli, cavi della luce e mezzi parcheggiati sul marciapiede. Lui non si fermò neanche a salutare e passò dritto nel retrobottega. Senza dire nulla lo seguii mentre attraversavamo un’abitazione in cui un nonno guardava la tv con i nipoti, entrando da un lato e spuntando dall’altro, passando proprio davanti alla televisione, come trovo odioso che facciano quando la sto guardando io.
Di stanza in stanza si alternavano cortili, lamiere, case raffinate e corridoi di signore che cucivano a macchina senza alzare lo sguardo su quei passanti che percorrevano impunemente quel luogo come se fossero a casa loro. C’erano anche degli scooter che passavano da una stanza all’altra, quasi che la cucina fosse troppo lontana per arrivarci a piedi. Con le spalle del mio amico davanti alla faccia per tutto il tragitto, non mi facevo tuttavia scappare un verso che potesse tradire il mio disappunto nell’attraversare quella che, se fossi stato nella mia città, avrei definito una casbah.
Imboccammo delle scale a chiocciola e, dopo una mezza dozzina di piani con relative famiglie, arrivammo su un terrazzo da cui si vedeva il lago di Hanoi. Il mio amico dovette intuire qualcosa perché senza aspettare domande mi disse, “Ecco, quello è il lago e sotto hai visto il Vietnam”.

Non c’è soluzione di continuità tra dove vivi e dove lavori, non c’è confine tra casa tua e quella del vicino, persino i passanti l’attraversano e se c’è un posto sotto questo cielo, ma anche sotto questo tetto, ci si va in motorino.
Avrei realizzato presto cosa significa densità abitativa. Sarebbe invece stato difficile grattare la superficie e comprendere la situazione dei laboratori come quello che avevo visto di sfuggita, delle fabbriche e della gente che le abita – letteralmente.
L’urbanizzazione e la modernizzazione non hanno creato bidonville intorno al centro città, come la maggior parte delle città dei paesi in via di sviluppo in cui l’industria è arrivata prima dell’edilizia popolare e l’immigrazione eccede il lavoro disponibile, lasciando colonne di formiche arrancare ai margini del barattolo col miele. Hanoi ha accolto gli immigrati nel suo ventre e, prima che se ne potessero accorgere, li aveva già fagocitati in un tritacarne che sta consentendo a questo grande paese il suo boom economico.

La combinazione di rapida crescita dell’industria vietnamita e basso livello di infrastrutture dal quale si è sviluppata, ha messo pressione al governo e alle aziende per spingerle ad occuparsi dei problemi dei lavoratori e delle relazioni sul posto di lavoro, oltre che degli standard di sicurezza e salute per i dipendenti. Il Vietnam ha sostanzialmente aggiornato il proprio Codice del Lavoro nel 2002 quando ha adottato molti standard dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, nonostante i quali rimangono dei divari, esacerbati dalla richiesta di ulteriore espansione commerciale e liberalizzazione del mercato. La forza dell’economia vietnamita è stata anche la possibilità di sfruttare l’immigrazione interna, proponendo costi del lavoro inferiori alla concorrenza cinese, affetta ultimamente dall’emergere di una classe media che reclama diritti a lungo rimandati. C’è preoccupazione in particolare per le condizioni di lavoro all’interno di molte piccole e medie imprese collegate all’indotto delle multinazionali. Nel 2006 scioperi ad oltranza nell’hinterland di Ho Chi Minh City hanno portato l’attenzione del governo sul problema dei salari. Per la prima volta dal 1999, migliaia di lavoratori chiedevano un aumento del 40 per cento della paga minima, il cui stipendio ammontava a circa 54 dollari americani al mese.

La situazione peggiore è quella delle migranti interne lavoratrici del settore tessile, ridotte a vivere e lavorare in condizioni per cui si potrebbe configurare una violazione dei diritti umani. Il 78 per cento dell’industria tessile è composta da ragazze tra i venti e i trent’anni provenienti dalle zone rurali che, arrivate in città e senza una rete di protezione sociale, accettano di lavorare senza un regolare contratto per una paga inferiore a quella di tutte le altre attività presenti nelle aree urbane. In campagna la disoccupazione e la povertà sono a livelli altissimi, per cui farsi sfruttare nei sottoscala di abitazioni private adibite a fabbriche in città è comunque preferibile che spaccarsi la schiena nelle risaie. Non che fare l’operaia sia meno faticoso: bisogna stare per molte ore sedute nella stessa posizione, ripetere all’infinito gli stessi movimenti, spesso in ambienti caldi, sporchi e rumorosi. Anche per questo c’è un rinnovo frequente della manodopera; in media un’operaia dura due anni e poi cerca un altro lavoro. Se è vero che il tessile è il settore di approdo delle immigrate che non vogliono darsi alla prostituzione perché non richiede particolari competenze, è anche vero che questo non le rende indispensabili. Esse sono cioè “intercambiabili”, senza valori aggiunti o specializzazioni che le proteggano dalla minaccia del licenziamento. Una volta fuori dalla fabbrica infatti la possibilità di impiegarsi altrimenti è nulla dato che non si è sviluppata nessuna competenza specifica ed il tasso di disoccupazione è alto. Così le donne finiscono per lavorare più del dovuto, dalle dieci alle quindici ore in più alla settimana, per far fronte alla crescente competizione nel settore dell’abbigliamento sportivo.

Gli eventi hanno dimostrato che queste attività export-oriented e la gente che ci lavora sono fortemente vulnerabili e soggette alle fluttuazioni dei mercati internazionali. Questo riduce, se non neutralizza completamente, la capacità delle immigrate di tornare a far visita alle famiglie nelle città natale o a prendere parte alla vita della comunità. E’ letteralmente il sogno comunista ribaltato. L’alienazione è garantita, la distribuzione del lavoro internazionale è basata su relazioni di forza tutt’altro che paritarie, lo sfruttamento è la regola e, soprattutto, si nega l’autocoscienza e la possibilità della lavoratrice di essere attiva nella vita sociale, familiare e politica. Quando Lenin disse: «Se non facciamo entrare le donne nelle attività pubbliche, nelle forze dell’ordine, nella vita politica, se le imprigioniamo tra le mura della cucina allora è impossibile assicurare una vera libertà. Inserendo delle donne nei processi di produzione si prepara la strada per l’emancipazione», non sapeva quale parte sarebbe spettata loro nei processi di produzione.

Oltre all’industria del tessile, il lavoro femminile è sproporzionatamente concentrato in prestazioni occasionali ed economia informale (il 26 per cento delle donne contro il 19 per cento degli uomini), retribuito meno rispetto all’altro sesso (il 26 per cento delle donne rispetto al 41 per cento degli uomini). Come ha affermato il Comitato per l’eliminazione della discriminazione contro le donne nel 2007, le lavoratrici dell’economia informale soffrono della mancanza di accesso a cure mediche e previdenza sociale. Il Comitato ha chiesto al governo di rivedere ancora il Codice del Lavoro per adeguare l’accesso ai servizi sociali alle esigenze delle dipendenti nei settori di esportazione. Sebbene a costo di sacrifici, mentre il processo di liberalizzazione sta portando ad una crescita economica nella maggioranza della popolazione, le minoranze etniche, che costituiscono il 14 per cento dei vietnamiti (circa dieci milioni di persone), non hanno beneficiato in misura uguale del progresso. Secondo l’ultimo censimento, i cittadini vietnamiti sotto il livello di povertà si sono ridotti dal 58 per cento della popolazione nel 1993 al 20 per cento del 2004. Tra le minoranze etniche, il livello di povertà si è ridotto dal 86 al 61 per cento. Queste stesse minoranze costituiscono il 39 per cento dei poveri su scala nazionale.

Il Vietnam è passato dall’essere un paese con una cronica emergenza alimentare all’essere il primo esportatore di riso al mondo. Tuttavia le minoranze etniche ancora vivono nella carestia, nella malnutrizione e nella povertà. L’abbandono scolastico è più alto della media ed è del 20 per cento tra le ragazze delle minoranze etniche. Verrebbe il dubbio che dietro ci sia una volontà politica di tenere sotto controllo e contenere le minoranze etniche segregandole in uno stato di indigenza e bisogno continuo, come in un ricatto implicito o un’ apartheid informale. Dunque se in Italia il problema è la disoccupazione delle fasce vulnerabili, in Vietnam si capisce perché si chiamano così.

Carlo Scuderi