Lezioni Fiorentine 19/04/2016

Guerra, mutamento dell’ordine internazionale e, tanto per cambiare, caos: di questo si è parlato al terzo incontro degli studenti con le Lezioni Fiorentine, seminario permanente organizzato da alcuni professori della nostra facoltà, tenutosi lo scorso 19 aprile. Sono intervenuti il generale Vincenzo Camporini, ex capo di Stato maggiore dell’aeronautica militare e della Difesa, oggi vicepresidente dell’Istituto Affari Internazionali, e, inatteso, Valdo Spini, ex sottosegretario agli Interni e agli Affari Esteri, già Ministro dell’Ambiente e professore associato di economia politica presso la nostra facoltà. Presentavano i docenti Luciano Bozzo, che ha introdotto i due ospiti, e Francesca Ditifeci.

Camporini ha esordito sottolineando il ruolo giocato dal caso e dalla fortuna nelle vicende umane: tanti avvenimenti sono imprevedibili e la quotidianità, nello specifico nell’ambito delle relazioni internazionali, si sta complicando sempre di più. Esiste un trend di crescita esponenziale degli attori presenti nelle attività umane e, quindi, anche nelle relazioni internazionali. Dopo la pace di Westfalia il numero di attori internazionali era estremamente ridotto, poiché questi erano solo un gruppo ristretto di Stati nazionali abbastanza forti da potersi imporre come protagonisti nello scenario mondiale. Tuttavia, il punto di minimo assoluto fu raggiungo durante la seconda metà degli anni ’40, con la discesa della cortina di ferro in Europa e l’inizio dell’equilibrio bipolare. Il bipolarismo rendeva la vita degli uomini estremamente semplice: tutto veniva declinato secondo uno schema preciso che riduceva ogni vicenda ad una costante contrapposizione dicotomica (o bianco o nero, senza sfumature). Il sistema economico coincideva con quello politico, che a sua volta si sovrapponeva a quello militare. Tutto era scandito secondo un sistema di mutua distruzione assicurata (mutually assured destruction) e di guerre per procura per gli attori comprimari.

Con la fine della guerra fredda sembrava che, usando le parole di Fukuyama, la storia sarebbe finita: il modello vincente dell’Occidente si sarebbe propagato a macchia d’olio, trionfando in tutto il mondo. Così non è stato: con la caduta del comunismo e la dissoluzione dell’Unione Sovietica sono nati e cresciuti altri protagonisti, rimasti spesso in secondo piano durante il conflitto bipolare, mentre altri ancora si sono disgregati, come nel caso della Yugoslavia, nella quale si è consumata una terribile guerra civile, che ha portato con sé circa mezzo milione di morti. Camporini ha voluto rimarcare come durante il conflitto iugoslavo sia stato messo in discussione uno dei valori fondamentali dell’Occidente: il multiculturalismo. Il valore della discussione e del dialogo col “diverso”, è stato, come accade tutt’ora anche in altre parti del mondo, ritenuto un disvalore, e non deve stupire come oggigiorno i conflitti inter-etnici e tribali siano la regola in molti angoli del globo.

Facendo nuovamente riferimento al conflitto in Yugoslavia, il generale ha sottolineato come l’Occidente, trionfante nella guerra fredda, non fosse politicamente pronto per gestire la serie di crisi che gli si proponevano con sempre maggiore violenza. Uno dei motivi del caos in Bosnia fu dato dalla mescolanza a livello territoriale delle differenti comunità etniche, così stretta da impedirne geograficamente la separazione. Lo stesso errore, la stessa mancanza di un disegno politico concreto, viene commesso dall’Occidente al giorno d’oggi: non si può intervenire militarmente, dice l’ex capo di Stato maggiore, se non si ha alcun punto di arrivo al quale approdare. Gli accordi di Dayton sono una stentata soluzione, tant’è che, ha affermato Camporini, “andare a Sarajevo oggi è come camminare su un lago con un sottilissimo strato di ghiaccio”. Nel 1999 il problema in Kosovo fu analogo e, dopo l’intervento non autorizzato della NATO, questo venne separato dalla Serbia rispettando i vecchi confini geografici e non quelli etnici, acuendo la tensione fra gli albanesi e la comunità serba a nord del fiume Ibar.

Tutte queste frizioni (e frazioni) hanno consentito una moltiplicazione degli attori istituzionali, a cui si affiancano, per altro, quelli non statuali, come ad esempio le bande private che portano ad una vera e propria polverizzazione del potere. La diffusione delle informazioni, dell’educazione e della tecnologia, in sé positiva, diventa potenzialmente negativa quando si tratta di educazione deviata o di diffusione incontrollata di tecnologia militare potenzialmente distruttiva. In Libia ci sono fra cinquecento e duecento diversi attori tribali, ognuno con gli armamenti sufficienti per contrastare gli altri. La Libia, prima della colonizzazione italiana, era un’entità divisa, di cui Tripolitania e Cirenaica rappresentavano rispettivamente una provincia ottomana e uno stato vassallo della Sublime Porta. Con la caduta di Gheddafi, l’Occidente ha “aperto il vaso di Pandora”, riscoprendo queste e molte altre differenze e frammentazioni e portando avanti un’operazione militare senza avere alcun disegno politico di lungo termine da realizzare. Sullo stesso piano si pongono il problema siriano ed iracheno; in Siria è in atto una guerra fra diverse potenze regionali le quali possiedono tutte un disegno egemonico, che il conflitto fra sciiti e sunniti serve solo ad alimentare. In un certo senso, dice Camporini, la guerra in Siria è una riproposizione della Guerra dei trent’anni. Viviamo in un periodo di confusione e non abbiamo veri leader che sappiano far ordine in mezzo al caos. La stragrande maggioranza dei capi di Stato e di governo non conduce veramente; non si può quindi parlare di leader, ma piuttosto di led, poiché le scelte politiche sono dettate dagli umori dell’opinione pubblica e dalle tornate elettorali. Anche in questo caso ciò che manca è un disegno politico di lungo termine. Piaccia o meno, c’è un solo personaggio, sostiene a malincuore l’ex capo di Stato maggiore, che può essere degno dell’appellativo di leader: Vladimir Putin.

In chiusura, commentando l’intervento del generale Camporini, Valdo Spini ha evidenziato come le forze armate possano definirsi la burocrazia statuale più internazionalizzata e come la natura degli interventi italiani all’estero sia cambiata dopo il conflitto nella ex Iugoslavia. A livello prettamente politico, Spini ricorda come l’Italia abbia tentato, senza successo, di promuove una soluzione unitaria del conflitto a differenza di altri attori come Germania e Vaticano. Attualmente l’Unione europea rappresenta ancora un modello a cui tendere per alcuni degli stati usciti dalle guerre nei Balcani. L’Unione europea non è perciò riuscita a presentarsi come attore sufficientemente unito e credibile per poter dialogare con la Russia di Putin in merito alle vicende mediorientali. Il che ha spinto il Cremlino a cercare altri interlocutori. In merito a Daesh, Spini sostiene che si sia lasciato guadagnare terreno a Daesh nell’errata convinzione che la minaccia fosse comunque inferiore all’irrisolta questione curda. Volgendo infine lo sguardo agli attentati avvenuti in Europa, la sfida che ci troviamo ad affrontare sta nel trovare nuovi strumenti per rispondere ad un tipo di terrorismo che si fonda su un anti-occidentalismo di matrice religiosa piuttosto che politica.

Elia Bescotti e Elena Cammilli