Nuovo ruolo per la Costa d’Avorio nella strategia francese in Africa Occidentale

Pochi giorni fa ad Abidjan il ministro della difesa francese Jean-Yves Le Drian ha annunciato un rafforzamento del contingente di stanza in Costa d’Avorio. Questo vuole essere un segnale tangibile dell’impegno che la Francia intende perseguire nell’area dell’Africa occidentale, tradizionalmente legata all’ex madrepatria. La Costa d’Avorio ha sempre avuto rapporti privilegiati con la Francia, che ne fece il fulcro della successiva presenza economica nella regione. Basti pensare che tra gli anni sessanta e la fine degli anni settanta, quando negli altri paesi africani gli europei venivano espropriati dei loro beni e rimpatriati, la comunità francese passò da diecimila a cinquantamila membri. Grazie alla clausola che prevede la possibilità di intervento armato francese dietro esplicita richiesta dei governi legittimi, la Costa d’Avorio ha goduto di una certa stabilità sotto la protezione francese e, almeno finché non si è dovuta dissanguare in lotte fratricide, ha vissuto una crescita del 10% annuo. Dalla morte di Félix Houphouët-Boigny nel 1993, già parlamentare e ministro francese (il primo africano in un governo europeo), primo presidente e padre della patria, principale artefice della duratura partnership franco-ivoriana, la situazione è precipitata. Tra colpi di stato e la guerra civile, le truppe francesi sono state continuativamente operative sul territorio dal 2002, prima con la forza di interposizione Licorne, poi con la missione ONU Unicorn (2011) e dal 2014 nell’ambito dell’operazione Barkhane. Dopo lo smantellamento del sistema coloniale, la Francia ha conservato una rete di importanti basi militari a Dakar (Senegal), Libreville (Gabon) e Bamako (Mali) ed ha stretto accordi con le ex-colonie belga di Burundi, Ruanda e Congo. A lungo la base più importante è stata Gibuti, strategica per esercitare influenza anche in Medio Oriente, dal 2001 condivisa con gli americani. Con la creazione delle Forze Francesi in Costa d’Avorio (FFCI) a gennaio, la Francia sembra aver spostato il suo baricentro verso la parte occidentale del continente. Le forze presenti non si occupano solo della sicurezza, ma anche dell’addestramento delle forze nazionali, con cui conducono esercitazioni. Ogni anno in Costa d’Avorio vengono formati seicento soldati con l’addestramento dei consiglieri francesi. La vittoriosa guerra in Mali nel 2013, che ha impiegato quattromila uomini, ha sancito un ritorno attivo alla politica del kepi blanc cioè all’utilizzo dei militari per “pacificare” à la francese. Subito dopo, nell’agosto 2014, infatti, è stata avviata l’operazione Burkhane, con tremila unità in Ciad, Niger, Mali, Burkina Faso e Mauritania per una riorganizzazione delle forze francesi in funzione di contro-terrorismo. La scelta di N’Djamena come quartier generale è stata criticata in quanto la città è ad est rispetto all’epicentro di Al-Qaeda nel Maghreb, che opera nelle zone settentrionali di Mali e Niger e nel sud dell’Algeria. Il Ciad, però, è l’unico Paese stabile nel Sahel, ha una buona infrastruttura militare, è vicino alla Libia ed è già intervenuto con successo in supporto alla Francia in Mali.

Per la Francia questo si integra nella prospettiva di Françafrique, osteggiata da Sarkozy che la considerava troppo costosa ed inutile, ma rispolverata da Hollande che la utilizza come base per intervenire militarmente a sostegno del Mali e per combattere il terrorismo di matrice islamica nell’area. Con la proposta del primo ministro italiano Renzi di intervenire maggiormente in Africa attraverso investimenti finanziati con Eurobond al fine di creare condizioni economiche sociali favorevoli all’arginamento dei flussi migratori verso l’Europa e che inibiscano nello stesso tempo l’attecchire di formazioni terroristiche, la Francia potrebbe avere un’ulteriore spinta per consolidarsi laddove ha già un’esperienza pregressa. L’Africa occidentale è stata per tutto il dopo guerra come un territorio di caccia esclusivo o perlomeno privilegiato per le imprese francesi.

La presenza militare è attualmente l’unica occidentale di consistenza tale da poter determinare il futuro dei governi locali e quindi di avere un certo sostegno per poter operare sul loro territorio senza essere tacciati di neocolonialismo.

Bisogna occupare le caselle vuote, non lasciare zone con governi così deboli da non riuscire a controllare e osteggiare il nascere di sentimenti eversivi e pericolosi per l’Europa. Dunque una sostituzione su mandato. Però le operazioni militari fini a se stesse non possono curare il problema ed hanno ragion d’essere solo se dietro c’è un piano politico di lungo respiro con un adeguato supporto economico.

Sembra che alla Francia si chieda di contribuire con i muscoli purché gli altri ci mettano le tasche. Ad Hollande va bene, dato che in questo modo può distrarre un’opinione pubblica interna sempre meno propensa ad appoggiare avventure militari, soprattutto in un frangente in cui si accumulano gli scandali per il traffico di armi ed abusi sessuali perpetrati da soldati francesi in Repubblica Centroafricana.

Il Sahel va messo in sicurezza per il futuro del mediterraneo e quindi dell’Europa, ma ovviamente bisogna scontrarsi con la realtà dei fatti e la durezza delle azioni che questo comporterà. Il governo in uscita ha perso popolarità negli ultimi tempi per via degli attentati subiti da concittadini in patria e all’estero. La situazione si è radicalizzata anche a casa e i bombardamenti sono solo la punta di un iceberg che può essere smussato solo con un intervento congiunto con altre potenze e mirato ad un obiettivo che sia ricostruire saldamente qualcosa con i piedi a terra, evitando così di porre le basi per una nuova Libia.

Carlo Scuderi