I documenti
“The Assad Files” è il titolo con cui The New Yorker ha aperto un reportage sul lavoro svolto per risalire ai documenti che proverebbero i crimini commessi dal governo di Bashar al-Assad contro la popolazione siriana. Dallo scoppio della guerra civile nel 2011, numerose sono state le accuse di violazione dei diritti umani rivolte contro i vertici siriani. La ricerca di prove è il passo indispensabile per scoprire il coinvolgimento effettivo del governo nelle operazioni di repressione del dissenso.
Con questa logica nel 2012 è stato fondato un organismo investigativo indipendente, la Commission for International Justice and Accountability (CIJA) – fra i cui finanziatori troviamo l’Unione Europea ed alcuni governi come quello britannico, tedesco, svizzero e candese. L’obbiettivo fin dall’inizio è stato quello di trafugare documenti ufficiali dalla Siria. Al momento sono state raccolte centinaia di migliaia di pagine di documenti, 600.000 delle quali si trovano già in Europa.
La CIJA è riuscita a portare fuori dalla Siria questa mole di documentazione grazie a disertori o funzionari governativi che lavoravano in segreto per l’opposizione.
Di particolare rilievo sono i documenti che riferiscono degli incontri di un Nucleo centrale di gestione della crisi, principale responsabile della soppressione dei disordini alla base della guerra civile. Il materiale raccolto mostrerebbe come Assad sia sempre stato al corrente delle decisioni del Nucleo, poiché la fase di implementazione non sarebbe stata possibile senza il suo consenso.
A tutto ciò si affianca la raccolta di testimonianze di oppositori, o sospetti tali, arrestati e sottoposti a torture per estorcerne confessioni. La CIJA spera di poter far testimoniare in futuro gli ex detenuti di fronte ad un tribunale penale internazionale.
Futuro oltre la linea rossa
Nello scenario attuale le incognite sono tuttavia molteplici. Assad può infatti ancora avvalersi del sostegno russo all’interno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ed affidare il caso siriano alla giurisdizione della Corte Penale Internazionale sembra al momento impossibile.
Prima ancora di questo, il problema di fondo è l’incertezza sulla permanenza di Bashar al-Assad alla guida del governo siriano. Esemplare, a riguardo, è il procedere instabile dei colloqui di Ginevra. Già sospese in precedenza dall’inviato delle Nazioni Unite Staffan de Mistura, le discussioni sono state di nuovo interrotte il 18 Aprile dall’Alto comitato per i negoziati, che rappresenta l’opposizione siriana ai colloqui. Secondo l’Alto comitato, premessa indispensabile per giungere ad un accordo è porre le basi per una transizione politica. Il governo siriano invece non si è mai mostrato intenzionato a porre sul piatto dei negoziati una possibile transizione; le priorità sono in primis la lotta al terrorismo e il rafforzamento dell’unità nazionale.
È su questo punto che si gioca il destino della Siria. Dopo il fallimento della retorica della “linea rossa” lanciata da Obama, non è più chiaro se prevarrà la ricerca di un’alternativa ad Assad o il rafforzamento dello stesso in chiave anti Daesh. In molti temono un esito simile a quello libico, ma appare lecito domandarsi se le similitudini fra le due situazioni siano così marcate. È soprattutto indispensabile tenere conto degli attori in gioco in Siria, senza scadere nella semplificazione che riduce tutto alla contrapposizione fra Assad ed alleati russi da un lato e Daesh dall’altro. Alcuni “scomodi” vicini come Turchia, Arabia Saudita e l’Iran alleato di Assad, per esempio, difficilmente rinunceranno ad avere una voce in capitolo nei futuri sviluppi politici.
In questo contesto, la comunità internazionale appare più che mai incerta su come agire. Se la soluzione diplomatica viene incoraggiata, sembra difficile prevederne il successo senza una minima base di accordo sui principi che devono ispirare i negoziati.
Elena Cammilli