Per una (s)confinata libertà: riflessioni da Schengen

di Enrico Pelosato 

In tempi di antieuropeismo dilagante, ci si potrebbe chiedere: “cos’è l’Unione Europea per te?”. È la moneta unica, l’Erasmus oppure è l’austerity? O ancora, è l’abolizione dei costi del roaming oppure si tratta della progressiva soppressione delle frontiere interne[1]? Una domanda apparentemente oziosa, eppure dall’esito non scontato se ci si pone tale quesito a Schengen, una cittadina del cantone di Remich (al confine tra Lussemburgo, Germania e Francia) divenuta famosa nel 1985 per la stipula del celebre “Accordo di Schengen” da parte dei rappresentanti di cinque Paesi Europei a bordo del battello “Princesse Marie-Astrid”, ancorato nella Mosella.

Se da un lato è opinione di chi scrive che l’abolizione delle frontiere interne sia stata la condizione che ha permesso maggiormente, citando Massimo D’Azeglio, “di fare gli Europei”, dall’altro è proprio l’assenza (o la presenza) di tali frontiere interne ad essere stata rimessa in discussione nella più recente crisi migratoria che ha interessato il continente. Un ruolo per altro non banale quello della frontiera, come spiegato efficacemente nel Gennaio 2016 da Ilvo Diamanti:

Il nostro disorientamento, negli ultimi decenni, negli ultimi anni, riflette il declino, in alcuni casi, il dissolversi dei nostri punti di riferimento. La trasformazione rapida e violenta del limes, com’era definito il confine (in continua evoluzione) dell’Impero Romano. […] Noi, infatti, siamo orfani dei muri che per decenni hanno (de)marcato il nostro mondo. Eppure, al tempo stesso, gli davano senso, oltre che rappresentazione. Il Muro di Berlino ad Est. Il Mediterraneo a Sud. Erano frontiere politiche, ma anche sociali e culturali. Ideologiche. Oggi non ci sono più.[2].

Confine quindi come elemento identitario che, così come le mappe e la bussola, ci permette di orientarci, di stabilire chi è dentro e chi fuori. Ai fini di questo articolo, tuttavia rileva maggiormente come si sia arrivati alla progressiva abolizione delle frontiere interne e al tortuoso ingresso dell’Italia nella celebre Area Schengen[3].

Il 14 giugno 1985, nella cittadina di Schengen, Francia, Repubblica Federale di Germania, Belgio, Paesi Bassi e Gran Ducato di Lussemburgo siglano un accordo dal contenuto storico. Infatti, al fine di preparare sé stessi e la Comunità Europea stessa alla creazione di un mercato unico europeo e per tentare di dar vita a un sistema comune di controllo dei flussi migratori (divenuti ormai ingestibili a livello nazionale), viene fatto esplicito riferimento ad elementi che tradizionalmente afferiscono alla sfera di sovranità statale: l’abolizione dei controlli sulle persone e la riduzione degli stessi sui veicoli in transito tra le frontiere comuni, il trasferimento e il rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne, la progressiva armonizzazione delle politiche nazionali in materia di visti, la convergenza della legislazioni in materia di ingresso e soggiorno dei cittadini non comunitari, il rafforzamento della cooperazione a livello di forze di polizia e dogane, l’ampliamento degli accordi in materia di prevenzione della criminalità, estradizione, diritto di inseguimento ed infine l’armonizzazione delle legislazioni inerenti al traffico di stupefacenti, armi ed esplosivi[4]. Un attento lettore si potrebbe, tuttavia, domandare perché, in riferimento a questa materia, si sia fatto ricorso al metodo intergovernativo anziché a quello comunitario: la risposta appare tanto semplice quanto sostanziale se si ragiona in termini di “chi è dentro e chi è fuori”. Se da un lato, infatti, Gran Bretagna e Danimarca sono fortemente contrarie alla comunitarizzazione delle competenze sopracitate, dall’altro, Francia e Repubblica Federale di Germania vogliono escludere l’Italia dall’accordo al fine di porre il Belpaese di fronte ad uno scomodo diktat: pagare le conseguenze di un’esclusione economicamente dispendiosa e politicamente inopportuna oppure accettare le condizioni franco-tedesche in materia di politica immigratoria.

Come si vedrà, l’Italia alla fine ha propeso per la seconda soluzione dando vita ad un processo di europeizzazione della sua politica migratoria, ma procediamo per gradi. L’esclusione italiana dall’Area Schengen, se calata nel contesto europeo del 1985/86, è dovuta sostanzialmente a tre fattori. In primo luogo, non si riesce a trovare un’intesa sull’armonizzazione del regime dei visti: infatti, se da un lato Roma vuole continuare a non chiedere visti ad alcuni Paesi dell’area mediterranea, dall’altro nel continente si teme che una simile generosità da parte delle autorità italiane possa mettere a repentaglio il nuovo sistema di frontiere comuni. In secondo luogo, ci sono divergenze circa la rigorosità nella regolamentazione dei flussi migratori e nella gestione dei controlli delle frontiere: se in Francia e Repubblica Federale Tedesca, vi è un sentimento di allarmismo per un’immigrazione percepita come fuori controllo, per contro in Italia essa non viene considerata un problema sociale e dunque non sono previste misure di contenimento del numero degli immigrati. Infine, i Paesi Europei auspicano un maggior coinvolgimento italiano nell’accoglienza dei rifugiati, considerato che in quel periodo, nonostante le critiche dell’UNHCR, lo status di rifugiato viene concesso solo ai cittadini di altri stati del continente. Dal canto suo, il progetto elaborato a Schengen non è esente da critiche all’interno della società civile e del mondo politico italiani: critiche che raggiungono il loro apice alla fine degli anni ’80, quando, sulla scorta di un rapporto conoscitivo della Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati, si arriva alla consapevolezza che l’Italia si sarebbe dovuta adeguare all’acquis di Schengen, con particolare riferimento all’imposizione di visti nei confronti della Turchia e dei paesi del Maghreb e al rafforzamento delle misure di espulsione e respingimento dei migranti irregolari.

Sulla scia di questa ondata di livore verso la “fortezza Europa”, si arriva quindi alla presentazione di un decreto legge a firma del socialista Claudio Martelli, che tuttavia non sortisce gli effetti sperati: se da un lato, Martelli ambisce a una programmazione sostenibile dei flussi migratori e allo sviluppo di una politica migratoria comunitaria aperta e con maggiori libertà di circolazione tra CEE e area dal Maghreb, dall’altro il crollo dell’URSS (e il relativo timore di una conseguente “invasione” di migranti da Est) e un cedimento repentino del fronte degli oppositori agli accordi di Schengen sparigliano le carte in tavola. Se infatti, sino ad allora, gran parte dell’opinione pubblica giudicava negativamente i contenuti del sopramenzionato accordo, più o meno improvvisamente piovono critiche bipartisan alla proposta del ministro socialista: lo stesso Craxi, pur riconoscendo la bontà e la necessità di aiutare lo sviluppo dei paesi del Mediterraneo, afferma di ritenere necessaria una politica sull’immigrazione che non incoraggi ulteriori flussi e che al contempo non allontani il Paese dall’Europa. Per tali motivi, se in ogni caso si riesce ad arrivare all’approvazione del d.l. Martelli, esso ne risulta completamente snaturato nei contenuti: abolizione della riserva geografica per i richiedenti asilo (pertanto, tutti gli stranieri, indipendentemente dal Paese di provenienze, possono chiedere il riconoscimento dello status di rifugiato); introduzione di un regime di visti; rafforzamento delle misure di respingimento delle frontiere dei migranti irregolari o per gli stranieri precedentemente espulsi, appartenenti alla malavita e/o privi dei mezzi di sostentamento; creazione di un sistema di espulsione degli immigrati condannati per reati gravi e/o in violazione delle disposizioni in materia di ingresso e soggiorno. Inoltre, all’inizio degli anni 90 il sistema Schengen riscuote un consenso unanime nei due emicicli parlamentari italiani, seppur si tratti di un supporto derivante da motivazioni ben diverse: i partiti del centrodestra ne elogiano la severità e il rigore nel controllo delle frontiere esterne comuni, mentre il centrosinistra considera lo Spazio Schengen come quello strumento in grado di garantire la libertà di circolazione delle persone all’interno del Continente Europeo. Per completezza di informazione, non va trascurato il fatto che le misure volte all’ingresso del Paese nell’area vengono presentate come sacrifici necessari dettati da un vincolo esterno, vale a dire si cerca di fare leva sul sentimento di pressione esterna e il senso di urgenza al fine di cercare di portare a termine un’azione politica percepita come necessaria e vantaggiosa ma al contempo avversata da taluni settori della società civile.

Si arriva quindi, nel novembre 1990, alla firma da parte italiana dell’Accordo di Schengen, seppur occorra attendere il 1997 per l’effettiva abolizione delle frontiere tra l’Italia e gli altri Paesi aderenti. Tuttavia, nel corso di questi 7 anni non sono mancati momenti di tensione su più fronti, ad esempio alcune difficoltà tecniche nella fase di ratifica dei trattati di adesione o il fatto che, a seguito dello sbarco massiccio di immigrati provenienti dall’Albania sulle coste italiane nel 1991, si sia temuto che l’Italia potesse ritornare ad essere il “ventre molle” d’Europa. Situazione di inquietudine che viene superata soltanto nel 1996 con l’avvento al potere di una coalizione di centrosinistra guidata da Romano Prodi intenzionata a “far rientrare l’Italia in Europa” mediante il rispetto dei criteri per l’ingresso nella zona euro e nell’Area Schengen e con una nuova legge antimmigrazione sviluppata tra gli allori Ministri della Solidarietà Sociale Livia Turco e il Ministro dell’Interno Giorgio Napolitano: se da un lato, si prospetta un ampliamento dei diritti sociali degli immigrati regolari, dall’altro si assiste ad un rafforzamento delle misure di controllo e respingimento alle frontiere e di espulsione dei migranti irregolari[5].

Si è trattato quindi di un ingresso nell’Area Schengen tutt’altro che scontato per l’Italia. Un ingresso che, affinché si potesse avverare, ha richiesto da un lato un certo grado di maturazione, e dall’altro anche una buona dose di dissidio e di riflessione. Come detto in precedenza, interrogarsi sull’importanza degli Accordi di Schengen potrebbe apparire un quesito ozioso, eppure tentare di dare una risposta esauriente risulta essere tutt’altro che semplice. In tempi di euroscetticismo e globalizzazione, una frontiera comune è forse il miglior antidoto alla costruzione di muri.

Concludendo, sempre con Diamanti: “L’Europa: dove comincia e dove finisce? Chi ne fa parte? Chi ne farà parte? Difficile comprenderlo. Tanto più se, invece di un limes, un territorio condiviso, che distingua noi dagli altri, i governi nazionali sono impegnati a erigere barriere interne all’Europa, invece di delineare e condividere quelle esterne. E in questo modo confermano e, anzi, accentuano l’in-capacità di costruire l’Europa. Perché, senza uno spazio comune, senza un confine condiviso: com’è possibile costruire un’identità europea? Sentirsi e dirsi europei?”.

 

 

Riferimenti:

[1] Geremek Bronislaw: “La suppression des frontières internes de l’UE, c’est la marque de reconnaissance que tous les citoyens des États concernés appartiennent au même espace, et qu’ils partagent une identité commune”, Schengen (18/12/2007);

[2] Diamanti Ilvo: “Schengen, la nostra identità in quel trattato. Non può bastare la moneta unica”, “La Repubblica” (25/01/2016);

[3] Paoli Simone: “La spada di Schengen” (https://www.officinadellastoria.eu/it/2013/12/27/la-spada-di-schengen/ ) 27/11/2013;

[4] Accordo fra i Governi degli Stati dell’Unione economica Benelux, della Repubblica Federale di Germania e della Repubblica Francese relativo all’eliminazione dei controlli alle frontiere comuni (1985); Convenzione di Applicazione dell’Accordo di Schengen del 14 Giugno 1985 tra i Governi degli Stati dell’Unione economica Benelux, della Repubblica Federale di Germania e della Repubblica Francese relativo all’eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni;

[5] Paoli Simone: “La spada di Schengen” (https://www.officinadellastoria.eu/it/2013/12/27/la-spada-di-schengen/ ) 27/11/2013; per una visione di più ampio respiro, Calandri Elena, Guasconi Maria Eleonora, Ranieri Ruggero: “Storia politica ed economica dell’integrazione europea dal 1945 ad oggi”, Edises (2015);