L’ultimo canto del cigno: Macron in Europa. La politica europea della Francia dal 1958 ad oggi.

Come è noto, il 7 maggio scorso Emmanuel Macron è stato eletto ottavo presidente della V Repubblica francese: la sua campagna e la sua vittoria, originali e inedite, hanno spiazzato completamente lo spettro politico francese che, dai tempi di De Gaulle, governava il Paese. Una serie di fattori – anche casuali – gli hanno permesso di arrivare fino all’Eliseo: ma non meno importanti sono alcune sue ambiziose promesse, che di qui a cinque anni dovranno in qualche modo essere mantenute.

Particolarmente interessanti sono quelle in merito all’Unione europea: il giovane Presidente è stato a più riprese definito europeista, e non è un caso che la sera stessa del secondo turno, sulla spianata del Louvre, Macron sia entrato sul palcoscenico sulle note dell’Inno alla Gioia.  O ancora ne è simbolo il messaggio che, ai tempi ministro dell’economia, fece pervenire al suo omologo greco, Varoufakis “I do not want my generation to be the one responsible for Greece exiting Europe”.

Tale sensibilità per i temi europei non era scontata fino a qualche settimana fa: la maggioranza dei candidati a questa tornata elettorale poteva tranquillamente essere definita euroscettica, e la stessa sfidante di Macron, com’è noto, era Madame “Frexit” Marine Le Pen.

È utile, tuttavia, in attesa della conferma al secondo turno del risultato delle legislative, in programma per la prossima domenica, delle prime significative azioni di Macron presidente, ripercorrere da una prospettiva storica, quali siano state le istanze francesi in Europa: nelle Comunità prima, e nell’Unione poi.

Nel momento in cui tutto ebbe inizio, gli anni ’50, la Francia fu in prima linea nel sostegno verso la creazione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio: se oggi in Europa si parla tanto il tedesco, in quel momento invece erano gli uomini politici francesi ad occupare la scena europea e a giocarvi un ruolo chiave – Schuman, Monnet, Pleven, Mollet. Una riconciliazione con la Repubblica Federale Tedesca era più che auspicabile, necessaria, sia in termini della difesa, che per una ripresa economica. Dopo il fallimento del progetto per la CED, proprio a causa della mancata ratifica di quel trattato da parte del Parlamento transalpino, la Francia ebbe nuovamente un ruolo fondamentale nella stesura dei Trattati di Roma.

Quando però all’Eliseo tornò Charles De Gaulle, in molti negli ambienti europei si preoccuparono, consapevoli delle sue idee tutt’altro che sovranazionali. Il Generale, in realtà, avrebbe poi tenuto fede agli impegni presi appena un anno prima con la firma del 25 marzo, reimpostando tuttavia l’impianto della politica europea della Francia in una chiave assai più intergovernativa. Fece da subito la voce grossa in difesa degli interessi nazionali, avviando la Politica agricola comune in termini assolutamente favorevoli ai francesi; organizzò gli incontri tra Capi di Stato e di Governo dei Sei, si disimpegnò dall’EURATOM e rifiutò l’ingresso alla Gran Bretagna della CEE – senza peraltro aver consultato gli altri Cinque, cancellando lo spirito che si era creato a Roma e provocando le ire dei paesi del Benelux. Il punto più critico venne raggiunto con la “Crisi della sedia vuota”: l’Europa delle Nazioni gollista non poteva andare d’accordo con lo spirito sovranazionale che guidava la Commissione Hallestein.

L’eredità di De Gaulle sul panorama politico francese è stata pesantissima: in merito all’Europa, come in tanti altri campi, ognuno dei successori ne ha seguito le orme, cercando di apportarne delle novità significative.

Dopo la breve parentesi della presidenza Pompidou, che finalmente tolse il veto francese sull’ingresso britannico nella CEE, nel 1974 venne eletto un candidato indipendente dai principali partiti francesi (gollista e socialista): Valéry Giscard d’Estaing. Prima del 7 maggio scorso era stato il più giovane Presidente della Repubblica, eletto a 48 anni; ma anche il più europeista sotto la V Repubblica, facendo parte del Comitato d’Azione per gli Stati Uniti d’Europa nel 1956 con, tra gli altri, Jean Monnet, e presiedendo molti anni più tardi, agli inizi del 2000, la Convezione per la Costituzione europea. Egli ottenne la creazione, seppure informale e al di fuori dei trattati CEE, del Consiglio Europeo, che si riunisce tre volte all’anno: ma sostenne anche l’allargamento dei poteri di bilancio del Parlamento europeo e la sua elezione a suffragio universale diretto da parte dei cittadini europei. Nonostante questo spirito federalista, fu sempre lui a frenare ogni tipo di progetto per un’Unione politica che andasse verso un allargamento a nuove competenze da parte della Commissione.

Più tardi, negli anni dell’Eurosclerosi, sarà ancora un altro presidente francese a rilanciare l’asse Parigi-Berlino per la costruzione di un’Europa unita: fu François Mitterrand a pronunciare quell’importante discorso nel 1984, davanti al Parlamento europeo riunito a Strasburgo, definendo l’Europa come un “cantiere abbandonato”, che doveva essere restaurato. Era presente al Congresso dell’Aia nel 1948, a cui avevano partecipato anche Spinelli, Adenauer, Spaak. Era europeista infatti, ma ugualmente ambiguo (votò ad esempio contro gli stessi Trattati di Roma): ma una volta salito all’Eliseo, si convinse che fosse l’Europa il terreno di gioco della potenza francese. La Francia mitterrandiana permise l’allargamento della CEE verso la Grecia nel 1981, mentre cercò di ostacolare quello verso la Spagna e il Portogallo, specie per temi sensibili come agricoltura, pesca e terrorismo basco: una chiara differenza con altri paesi, come il Regno Unito, da sempre sostenitore di quanti più allargamenti possibili, per poter diluire la forza centralizzante della Comunità. Mitterrand divenne ancora uno dei principali artefici del compromesso di Fontainebleau, che permise, tra le altre cose, di trovare un accordo con l’irrequieta Primo Ministro britannico Thatcher; e fu lui il principale sostenitore di Jacques Delors alla presidenza della Commissione, a partire dal 1985, il quale poi avrebbe premuto sull’acceleratore per la creazione del Mercato Unico e guidato la Commissione stessa fino oltre alla nascita dell’Unione europea.

Furono proprio gli anni sul finire del secondo mandato del presidente socialista, nell’immediato post-guerra fredda e in un momento di transizione, che la classe politica francese si immaginò nuovamente al centro del continente europeo. Ancora una volta l’asse franco-tedesco sui temi economico-politici e l’intesa con la Gran Bretagna sulla difesa europea e sul terzo pilastro dell’UE, rafforzarono questa visione. Eppure, proprio quegli anni segnarono dei cambiamenti epocali.

Fu il presidente Chirac a togliere il veto all’entrata nell’UE dei paesi dell’Europa centrale e dell’Est, così come dovette accettare la riforma della PAC (giugno 2003). E proprio sotto tale presidenza arrivarono i segnali di un’Europa profondamente diversa – ad esempio molto più sbilanciata a Est: la Francia si ritrovava a metà strada tra il federalismo tedesco di una Germania finalmente riunita e l’approccio intergovernamentale britannico. L’esperienza della coabitazione paralizzò il sistema politico francese e polarizzò le posizioni tra il Presidente neogollista Chirac e il Primo ministro socialista Jospin. Risultato di qualche anno più tardi: nel 2005, il progetto di Costituzione europea venne respinto proprio da un referendum popolare in Francia.

Il delfino di Chirac, divenuto presidente nel 2007, con la mania del primo della classe, Sarkozy, si adoperò alacremente, assieme alla Cancelliera tedesca, nella stesura dei Trattati di Lisbona e rilanciò la cooperazione militare con la Gran Bretagna di David Cameron.

Con gli ultimi due presidenti (Sarkozy, Hollande), tuttavia, la politica europea della Francia non ha assunto quella coerenza necessaria per darle una credibilità logica: il primo ad esempio era contrario all’adesione turca all’UE, ma non mosse obiezioni per quella della Croazia; il secondo si è ritrovato a fronteggiare numerose differenze con la Germania della Merkel – dal rispetto dei criteri per l’appartenenza alla zona euro, alla gestione della crisi greca, alla crisi dei rifugiati e i rapporti con il Medio Oriente. Negli ultimi anni, inoltre, anche nel paese d’Oltralpe sono comparse e si sono radicate forze apertamente antieuropeiste: il Front National – partito nato nel 1972 – dal 2011, sotto la presidenza di Marine Le Pen, ha attuato una transizione importante, riuscendo a cavalcare efficacemente l’onda di malcontento nei confronti dell’UE.

In generale, dopo questa breve carrellata storica, si può affermare che una preferenza francese verso un’Europa delle nazioni e una visione più confederale che federale in senso stretto, è stata fatta propria dai due più importanti raggruppamenti politici della V Repubblica, sia i neogollisti, sia i socialisti. Una qualche forma di sovranismo è stata intesa come un rifugio dalla globalizzazione, un modo per perpetrare l’originalità della repubblica francese; mentre gli europeisti in senso stretto sono dal 1958 una componente minoritaria dello spettro politico transalpino. Inoltre, il sogno di De Gaulle di una Francia-potenza in un’Europa-potenza ha dovuto scontrarsi con la realtà, incompatibile con la visione britannica di un’Europa-mercato – quest’ultima invece è stata rafforzata dagli allargamenti verso i Paesi dell’Est Europa, gelosi di una sovranità ritrovata, dopo il 1989, che guardano molto più verso gli USA per difesa e sicurezza.

Proprio alla luce di quello che è stato appena ricordato, la presidenza Macron rappresenta un’inedita novità. Prima di tutto perché il neoeletto presidente è andato oltre l’impostazione classica della politica francese verso l’UE: vuole rilanciare l’Unione, ma non in maniera di facciata, bensì guidato da un solido pragmatismo, a partire dalla riforma della zona euro, che ha già trovato il sostegno di diversi economisti e le orecchie alzate di alcuni interlocutori europei. Con tutti i limiti del caso, non per nulla la prima visita internazionale di Macron si è tenuta, a poco più di una settimana dalla sua elezione, a Berlino con la Cancelliera tedesca Merkel. Chiaro segno della volontà del rilancio franco-tedesco.

Gran parte delle ambiziose promesse elettorali del nuovo presidente dipenderà anche dagli equilibri che nasceranno in Parlamento. Dopo le elezioni legislative di domenica scorsa, sembra ormai certo il delinearsi di un’altra vittoria schiacciante per Macron: aspettando il secondo turno del prossimo 18/6, le proiezioni assegnano al neonato partito del Presidente tra i 415 e i 455 seggi, una maggioranza straordinaria che perfino Charles De Gaulle non era riuscito a raggiungere. Com’è noto, l’Assemblea Nazionale francese ha giocato un ruolo di primo piano in tanti episodi fondamentali per la storia dell’unificazione europea (basti pensare alla mancata ratifica del Trattato CED). Proprio a partire da quelle aule dunque, si apriranno numerosi capitoli, sempre con lo sguardo rivolto all’Europa, dalla difesa e sicurezza, ai negoziati della Brexit: capitoli che saranno carichi di novità, che dovrebbero rendere nuovamente Parigi un attore centrale per Bruxelles, nella speranza che si giunga a quelle riforme necessarie che l’Unione europea da troppo tempo sta aspettando. I numeri vanno in questa direzione: giustificazioni e ritardi, ormai, non sono più ammessi. Staremo a vedere.

Riccardo Roba