Femminismo Islamico Parte II: breve introduzione al femminismo islamico

di Flavia Di Mauro

Tra i vari raggruppamenti femminili attivi nei paesi a maggioranza islamica, ve n’è uno che conduce una battaglia decisamente peculiare: si tratta delle femministe islamiche, un eterogeneo insieme di studiose e attiviste impegnate da decenni in un’intensa opera di riforma sociale e teologica. Nel primo articolo di questa serie, ho presentato i caratteri generali dei femminismi laici attivi nella regione fino agli anni ’70. Ne è emerso un ritratto in cui un vigoroso slancio anti-colonialista strideva con l’affinità al femminismo universalista all’Occidentale. La “tradizionale remissività” delle donne mediorientali si è mostrata uno stereotipo infondato, frutto di un orientalismo di genere che persiste nell’opinione pubblica occidentale. Sebbene abbiamo ormai appurato la significativa influenza dei movimenti delle donne nella politica dei paesi MENA, resta da chiarire come l’emancipazione femminile possa trovare un alleato nel Corano.

Il termine femminismo islamico indica l’attività esegetica e divulgativa delle teologhe musulmane critiche, di cui alcune si definiscono femministe. Si tratta di un movimento attivo su scala globale, che unisce donne nate e residenti nei paesi islamici come Asma Lambaret e Fatima Mernissi, figlie della diaspora come Riffat Hassan e Ziba Mir-Hosseini, e addirittura donne di altra cultura convertitesi all’Islam, come la teologa afroamericana Amina Wadud — che ricordiamo per la sensazionale iniziativa di guidare in preghiera un gruppo di donne e uomini. L’affermarsi del femminismo islamico ha rappresentato una rivoluzione in tanti sensi: da un lato esso mette in discussione l’universalità delle interpretazioni laiche-occidentalizzanti del concetto di emancipazione femminile; dall’altro si contrappone alle teologie dominanti nel mondo musulmano, inserendosi in questo senso nel filone dei post-colonial studies[1]. Il suo nemico si incarna tanto nelle rappresentazioni della donna prevalenti nell’Islam tradizionale quanto nelle rappresentazioni dell’Islam più diffuse in Occidente. In questo senso, il femminismo islamico occupa uno spazio intermedio tra l’attivismo femminista laico e quello delle militanti islamiste. Avendo già trattato i femminismi laici nel precedente articolo, mi limiterò in questa sede a esplicitare i diversi riferimenti ideologici di questi due modelli. Mentre le femministe laiche si appellano prevalentemente alle convenzioni internazionali, le islamiste hanno come principale riferimento ideologico l’Islam tradizionale e il modello sociale che supportano non contempla l’eguaglianza bensì la complementarità di genere. Queste attiviste si battono per il diritto femminile all’istruzione e allo spazio pubblico, da intendersi però come premessa per la realizzazione in ambito domestico della donna «custode delle tradizioni»[2]. In un immaginario continuum che vede ai margini questi due riferimenti, le femministe islamiche sarebbero nel mezzo, evocando l’uguaglianza di genere tout court, ma rintracciandone le basi nel Corano stesso.

Il rapporto tra queste tre anime dell’attivismo femminile ha variato molto nel corso del tempo, spaziando da momenti di contrapposizione ideologica a momenti di attiva collaborazione. Un esempio eloquente dei termini della diatriba è la critica della professoressa Leila Ahmed all’avvocato egiziano Qasim Amin. Quest’ultimo, secondo Ahmed, non si proponeva realmente di sradicare il predominio maschile, ma solo di sostituire il modello di patriarcato arabo con quello occidentale[3]. In questo senso, Amin avrebbe a tutti gli effetti strumentalizzato il linguaggio femminista in un’opera di screditamento della cultura Islamica. È bene sottolineare, a questo punto, la relativa problematicità dell’espressione “femminismo islamico”: difatti, non tutte le donne che in pratica occupano lo spazio intermedio di cui sopra accettano, per via del suo portato coloniale, questa denominazione[4]. Nonostante le difficoltà semantiche, l’espressione femminismo islamico è ormai di uso comune in letteratura per designare un insieme altrimenti indefinibile di donne che conducono battaglie simili con strumenti simili. Come spiega Renata Pepicelli «la giustapposizione di termini quali “femminismo” e “Islam” attesta quindi l’emergere di identità multiple, indicando l’appartenenza a una comunità religiosa e l’impegno per e con altre donne a migliorare la condizione femminile»[5].

I momenti chiave nello sviluppo del femminismo islamico si snodano tra la fine degli anni ’70 e alla metà dei ’90, in conseguenza di una serie di trasformazioni di carattere locale e globale verificatesi in quel periodo. Essendo legato, in particolare, al processo di islamizzazione della società allora in corso, esso costituisce da un lato una risposta femminile alla montante ondata di islamismo radicale, dall’altro la semplice conseguenza di una rinnovata partecipazione femminile alle attività religiose. Il 1979 rappresenta in questo senso un punto di svolta di enorme valore simbolico. In una sorprendente coincidenza, mentre le Nazioni Unite stendevano la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna, in Iran si consumava la rivoluzione khomeynista. La vicenda iraniana è particolarmente eloquente: qui, nel bel mezzo della rivoluzione, le donne decisero di riappropriarsi del chador come simbolo di opposizione all’occidentalizzazione forzata voluta dallo shah. Quando poi il regime mostrò il suo volto fin troppo tradizionalista — tra le altre cose, imponendo l’hejab e abrogando la legge sulla proteizione della famiglia — le donne corsero in massa in organizzazioni femminili di vario tipo. Ne sopravvisse solo una: la Società delle Donne Rivoluzionarie Islamiche[6]. La seconda pietra miliare nella storia del femminismo Islamico coincide con un seminario dal titolo “Genere e società Islamiche” tenutosi nel Luglio ’97 all’Università di Londra: a partire da quel momento, il movimento suscitò un interesse propriamente globale. L’islamologa e iranologa Anna Vanzan, presente all’occasione, ricorda l’inaspettato intervento della responsabile dell’Istituto Islamico per le donne dell’Iran in questi termini: «l’oratrice, dall’aspetto di florida e innocua massaia, sta rivisitando alcuni fra i più controversi passi coranici che riguardano la posizione delle donne (poligamia, divorzio, abbigliamento). E la sua lettura non è certo conforme ai dettami delle gerarchie religioso politiche del suo Paese, tutt’altro.»[7]

Ma quali sono, esattamente, gli strumenti a supporto di letture simili? Il presupposto teorico fondamentale del femminismo islamico è che l’Islam, nel suo messaggio originario, sia profondamente orientato all’uguaglianza dei sessi e contempli numerosi elementi di emancipazione femminile. In questa cornice, le letture predominanti del Corano e le applicazioni tradizionali della Shari’a sarebbero il frutto di interpretazioni distorte dal patriarcato e della sistematica esclusione delle donne dai circoli esegetici. La storica negazione del punto di vista femminile ed il costante insabbiamento del ruolo attivo delle donne agli albori dell’Islam sarebbero i colpevoli di questo enorme errore interpretativo. Sono molti gli strumenti che le studiose hanno a disposizione per corroborare le loro tesi; primo fra tutti è la ijtihad, ovvero la ricerca indipendente sulle fonti religiose. La ricerca sulle fonti non si riduce allo studio del Corano, ma anche della sunna (tradizione) e degli hadith (detti e fatti attribuiti al profeta). Attraverso questa opera di rilettura, le femministe islamiche si rendono in grado, come spiega Aisa Al-Ajaami, di “liberare il testo dal contesto”. Secondo Al-Ajaami, una corretta interpretazione del Corano richiede costante considerazione dei principi universali dell’Islam. In questo senso, ad ogni disposizione normativa deve corrispondere una motivazione razionale, decaduta la quale la disposizione perde validità[8].

Questo processo richiede, ovviamente, una definizione ben precisa di quali siano i valori fondamentali dell’Islam. La professoressa Sara Borrillo identifica 10 argomenti alla base dell’uguaglianza di genere nel Corano. In questa sede, per questioni di spazio, presenterò solamente i primi 3. Il primo elemento a sostegno delle interpretazioni femministe del Corano sarebbe la sua sorprendente neutralità di genere. Secondo l’ermeneutica femminista islamica, Eva non nasce dalla costola di Adamo, ma l’uno e l’altra sono generati insieme da un singolo soffio: la donna, dunque, non è una mera appendice dell’uomo, ma a tutti gli effetti una sua pari. Nelle parole di Amina Wadud, il Corano è composto da due voci, una maschile e una femminile, perpetuamente ignorata dalla interpretazioni tradizionali; al contempo, il messaggio coranico non si rivolge affatto a “uomini” o “donne”, ma solamente a nafs, anime[9]. Questo ci conduce direttamente alle altre due argomentazioni identificate da Borrillo. La seconda riguarda la responsabilità condivisa di uomini e donne sulla reggenza della terra: questa responsabilità è affidata dal Corano non agli uomini, ma agli umani. La terza ricorda come, in base al Corano, l’unico vero fattore di distinzione tra gli esseri umani davanti a Dio sarebbe la loro integrità morale.

Col supporto di questo solido apparato teorico, le femministe islamiche sono in grado di reinterpretare in maniera del tutto innovativa alcuni dei versetti coranici tradizionalmente più restrittivi. Ne è un esempio la rilettura di Riffat Hassan del versetto 34 della sura IV. Il versetto, che recita «gli uomini sono preposti alle donne, perché Dio ha prescelto alcuni esseri sugli altri e perché essi donano dei loro beni per mantenerle», è stato tradizionalmente interpretato come una delle principali giustificazioni della superiorità maschile. Secondo Hassan, invece, esso non indica altro che il dovere degli uomini di garantire supporto e sostentamento alle donne durante la gravidanza[10]. Esempi di questo tipo ve ne sono a non finire e non solo sono confermati dall’apparato teorico delle esegete, ma anche dalla storia. L’analisi femminista islamica, difatti, non si limita allo studio dei testi sacri, ma anche allo svelamento del ruolo storico delle donne agli albori dell’Islam. Una figura particolarmente cara all’analisi femminista Islamica è quella di Aisha, la più giovane delle mogli di Maometto, che mantenne una straordinaria autorità anche dopo la morte del marito. Ancora, le femministe islamiche sostengono che Maometto abbia garantito alle donne pieni diritti di cittadinanza migliorandone nettamente le condizioni rispetto all’età preislamica.

Accanto alle teoriche femministe islamiche si collocano le attiviste della gender jihad, che si avvalgono del discorso religioso per sfidare leggi e istituti patriarcali. Ne è un esempio l’organizzazione Sister in Islam[11], costituitasi nel 1987 in Malesia con lo scopo di riformare l’implementazione della legge Islamica. Le SIS svolgono attività di vario tipo, che vanno dalla sottoposizione di memorandum di riforma al governo, all’organizzazione di sessioni di studio e alla divulgazione. Profondamente impegnato nella gender jihad è anche il gruppo Musawah [12], un movimento globale per l’uguaglianza e la giustizia nella famiglia islamica. Il movimento, nato nel 2009 a Kuala Lumpur, articola la sua azione su tre principi: knowledge building (divulgazione), capacity building (sviluppo delle competenze) e international advocacy (difesa internazionale). In altre parole, alla dimensione dell’empowerment e della diffusione di letture alternative dell’Islam, il Musawah affianca la collaborazione con organizzazioni internazionali ed NGO.

Di organizzazioni simili, si noti, ve ne è una moltitudine: la palestinese Donne e Orizzonti, la maliana Femmes et droits humaines, il marocchino GRIERFI[13] e altre ancora[14]. Resta da capire come mai, di fronte a un impegno femminile così pervasivo e di lunga data, le nostre rappresentazioni continuino a volere le musulmane come creature passive e inconsapevoli, o al meglio sole al mondo nel proprio martirio. Perché, insomma, non ci viene restituita l’immagine di donne organizzate, capaci di battersi per i propri diritti e riscuoterne i risultati? In uno studio condotto su più di 4000 articoli pubblicati tra il 1980 e il 2014[15], Rochelle Terman mostra come i media americani soffrano di un “bias di conferma”. Secondo Therman, i giornalisti tendono a scrivere delle donne che vivono in Medio Oriente e Nord Africa quasi esclusivamente quando i loro diritti sono violati, confrontandole con le occidentali emancipate e sessualmente libere. Nonostante non si sia in possesso di dati così ingenti per quanto riguarda i media italiani ed europei, la percezione è che anche i nostri media ne soffrano in qualche misura. L’immagine della donna musulmana da salvare, un vecchio tropo coloniale, è sopravvissuto nei secoli nell’immaginario Occidentale, lanciando una luce sinistra sulle nostre “conquiste culturali”. Quanto è progressista una società in cui si fa un uso così arbitrario e opportunista dell’emancipazione femminile? Sarebbe bene non dimenticarci di Lord Cromer, che mentre supportava l’emancipazione delle donne e l’abolizione del velo in Egitto, fu tra i membri fondatori della Men’s League for Opposing Women’s Suffrage a Londra[16]. Ricordandolo, potremmo domandarci: siamo poi cambiati tanto?

 

Note: 

 

[1] Pepicelli R., Femminismo Islamico. Corano, diritti e riforme, p. 25, Carocci Editore, 2016

[2] Borrillo S., Femminismi e Islam in Marocco. Attiviste laiche, teologhe, predicatrici, p. 81, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2017

[3] Pepicelli R., Op. Cit., p. 37

[4] Ibidem, p. 53

[5] Pepicelli R., Op. cit. p. 58

[6] Vanzan A., Le donne di Allah, p. 20, Bruno Mondadori, 2010

[7] Ibidem, pp. 1-2

[8] Borrillo S., Op. Cit., p. 95

[9] Pepicelli R., Op. Cit., p. 65

[10] Ibidem, p. 61

[11] http://sistersinislam.org.my

[12] http://www.musawah.org

[13] Group International d’ètudes et de reflexion sur femmes et Islam

[14] Pepicelli R., Op. cit., pp.83-88

[15] Terman R., “Islamophobia and Media Portrayals of Muslim Women: A Computational Text Analysis of US News Coverage”, International Studies Quarterly, 61, 489–502, 2017

[16] Pepicelli R., Op. cit., p. 37