Italia in Libia: dalla distruzione alla costruzione

Prospettive di intervento consapevole
25 maggio 2016,
Sala Multimediale, Palazzo del Rettorato, Università Sapienza, Roma

Temevo sarebbe stata una conferenza come tante: tendenzialmente piatta, noiosa. E invece. Quella organizzata dalla Geocrime Education Association (GEA) nel Rettorato della prima università di Roma, alla presenza del Rettore Eugenio Gaudio e moderata da Irene Piccolo di GEA, si è da subito rivelata diversa dal solito, un po’ per l’approccio originale dei vari interventi, un po’ per il finale decisamente movimentato.

Distruzione e costruzione in Libia il tema dell’incontro, che ha dato spazio in una prima parte a oratori che, tramite una lettura abbastanza personale, basata sulla loro “consolidata esperienza pratica”, hanno illustrato come il conflitto abbia mutato la vita reale nel paese; in una seconda parte ha fornito una “lettura storiografica” degli avvenimenti passati, la situazione presente e ovviamente i piani per il futuro. Domande cruciali, relative al passato e al futuro della Libia hanno fatto da filo conduttore: l’errore della comunità internazionale fu quello di intervenire durante la destituzione di Gheddafi? O furono sbagliate solo le modalità d’intervento? O, ancora, l’errore è da rintracciare in una mancata pianificazione per il periodo post-conflitto? E, per quanto riguarda il futuro, è giusto intervenire nuovamente?

Il primo intervento è stato quello di Maurizio Zandri – docente di scienza politica e rapporti internazionali – che ha parlato di una situazione tuttora molto confusa e fluida; le ambiguità sono presenti anche nella gestione dei rifugiati, dove la promessa di fondi internazionali ha causato la nascita di strutture per i profughi che sono nei fatti dei centri di detenzione più che d’accoglienza. Zandri ha accennato a programmi proposti e purtroppo non sempre realizzati, come quello di formare ex-combattenti e renderli guardiani di siti archeologici, o quella di finanziare progetti di micro sviluppo nei villaggi in cambio della consegna delle armi; infatti, uno degli aspetti ancora oscuri riguarda il comportamento da tenere nei confronti degli “sconfitti”. Altri nodi da chiarire sono il rapporto fra gli interessi generali e quelli della comunità locale, i dubbi sulla credibilità di un intervento Occidentale contro l’Isis in territori ex-coloniali, il rapporto che intercorre tra “uso della forza” e “uso della violenza”, la validità e necessità al giorno d’oggi del concetto di identità – concetto che può essere usato tanto per affermarsi verso l’esterno, quanto per creare divisioni interne.

Con una presentazione di carattere storico e intessuta di testimonianze più o meno dirette intitolata “Passato, presente e futuro della nostra ‘sponda sud’”, Michela Mercuri – docente di storia contemporanea e dei paesi mediterranei – ha illustrato come nei quarant’anni di regime di Gheddafi in Libia sia stata portata avanti una singolare politica di progressivo indebolimento delle istituzioni democratiche e militari (dove le milizie personali hanno preso il posto dell’esercito nazionale), dell’economia (basata sui dividendi delle rendite petrolifere tra capi tribù), e dell’Islam politico, il tutto a favore dell’accrescimento del potere del leader. Non è tutto: singolari, per non dire anomale, sono state anche le rivolte anti-Gheddafi, e la dottoressa non ha mancato di elencare gli aspetti sotto i quali queste si sono distinte dal resto delle “primavere arabe”. L’opinione di Mercuri sulle responsabilità dell’Occidente è che non vi è stato un adeguato follow up nel dopo conflitto.

L’ultimo intervento di stampo personale è stato quello di David Gerbi, psicoanalista ebreo di origine libica rifugiato in Italia dalla guerra del 1967, secondo cui il vero problema della Libia, ostacolo all’unificazione della nazione, risiede nella profonda frammentazione data dalla sclerotizzazione delle posizioni, dal tribalismo e, non da ultimo, dalla politica vissuta come “rincorsa alla poltrona” di cariche pubbliche esclusivamente per fini personali. Interessante il suo parere da esperto della mente umana: quello che occorre ora è l’instaurazione di una truth and reconciliation commission (che permetta insieme conflict resolution e conflict transformation) e uno sforzo per migliorare la concezione che i locali hanno dell’ambiente esterno (tramite un’educazione al dialogo); tutto ciò coinvolgendo ogni parte della società, incluse le donne e i giovani.

A sostenere l’opinione che l’intervento internazionale contro Gheddafi sia stato sbagliato è Raffaele Cadin – docente di diritto internazionale. Una via politico-diplomatica era possibile, e in fondo non vi erano prove fondate che il regime si fosse macchiato di crimini di massa. Gheddafi era il garante di delicati equilibri nell’area mediterranea, sia per quanto riguarda l’energia che i flussi umani, nonché la guida del movimento panafricano. Riguardo un possibile prossimo intervento, il professore sottolinea la necessità di individuarne le finalità, gli attori che dovrebbero autorizzarlo, e gli attori che lo dovrebbero guidare. Prima di tutto, l’obiettivo: un’azione generale per stabilizzare il paese? Un’azione mirata a obiettivi specifici, come la protezione dei pozzi petroliferi, o la guerra all’Isis, o la protezione delle ambasciate, o ancora la guerra alle associazioni criminali che si arricchiscono con il traffico dei migranti? Curioso che nessuno abbia contemplato l’ipotesi di un intervento a fini umanitari, previsto invece dall’iniziale risoluzione del consiglio di sicurezza dell’ONU. In secondo luogo, chi deve richiedere l’intervento? Al di là di notizie confuse e comunicati spesso contraddittori, al momento una richiesta sembra esser stata avanzata non dal governo libico, bensì dagli USA: nell’assenza di un quadro normativo chiaro in merito all’istituto della richiesta non si capisce bene quale possa essere legittimità alla base di un eventuale intervento. Terzo: chi deve condurre le operazioni? Una forza internazionale autorizzata dal consiglio di sicurezza? Una missione di peace enforcement? Oppure, come auspicato da Cadin, una missione di peace keeping accompagnata in un primo momento dall’uso della forza sotto mandato limitato ad esempio alla sola protezione dei civili? Gli interrogativi rimangono aperti.

Antonio De Bonis – presidente GEA – ha parlato di hubs criminali, faglie critiche e traffichi illeciti, di nuove forme di ibrido criminale nate dalla collaborazione tra criminalità e insorgenza di stampo terrorista. Tutti conosciamo le azioni di cui sono capaci questi “ibridi”: le attività delle FARC colombiane, gli attentati di Bali (2002), Madrid e Beslan (2004), Mumbai (2008) e altri. L’insegnamento di GEA è che entrambe le parti che compongono l’ibrido, i gruppi di criminalità organizzata e gli insorti, hanno qualcosa da guadagnare da questa commistione, che ha preso la forma prima di una collaborazione, poi di una vera fusione nella quale si è perso il fine ideologico a vantaggio di obiettivi puramente economici: si è passati da un’organizzazione come al-Quaeda (“nemico lontano”) al pericolosissimo network dell’Isis (“nemico vicino”).

Non poteva mancare all’incontro l’Ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata, il quale ha voluto parlare del processo di institution building. L’ambasciatore ha prima di tutto sottolineato come i fenomeni che interessano la Libia da alcuni anni a questa parte siano dettati anche dall’enorme pressione demografica ed elementi ambientali e di sottosviluppo economico che interessano e interesseranno sempre più l’intero continente, di cui la Libia non è altro che una valvola di sfogo verso cui vengono incanalati una buona parte dei traffici di merci ed esseri umani. Una volta spiegata la delicatezza della questione, l’ambasciatore si mantiene molto diplomatico affermando che l’institution building da attuare in Libia è ancora molto oscuro e confuso e necessita di essere chiarito prima di poter esprimere un giudizio a riguardo. Riguardo l’intervento contro Gheddafi è invece sicuro che sia stata una giusta decisione.

La sensazione che ho avuto da osservatrice alla fine della giornata, soprattutto considerando le obiezioni e le prese di posizione degli ospiti libici in sala, è che forse dovremmo domandarci se la comunità libica voglia davvero un intervento armato internazionale, e ricordarci che tale preferenza dovrebbe essere espressa tramite un presidente eletto da un parlamento quanto più rappresentativo possibile della nazione – ma per arrivare a questo è necessario che certe questioni, come il “nodo Haftar”, vengano affrontate e risolte.

Amira Badie