Orbán e il referendum del 2 ottobre

Il “ladro di cavalli” che ha messo il laccio all’Europa

Erano i primi di luglio di quest’anno, quando János Áder, presidente dell’Ungheria, con la frase “in quanto Presidente della Repubblica, io decreto che il referendum si terrà il 2 Ottobre” sanciva l’ufficialità di un imminente referendum. L’appuntamento elettorale in questione, da mesi invocato dal primo ministro Viktor Orbán, avrà come oggetto il piano della Commissione europea per il ricollocamento dei rifugiati, approdati in Grecia e in Italia. Tale piano era stato approvato dalla maggioranza degli Stati membri esattamente il settembre dell’anno scorso, ma durante la votazione, la stessa Ungheria, assieme ad altri paesi dell’Est Europa, si era schierata contro. Pur essendo in minoranza, il carismatico e discusso primo ministro magiaro non si è dato per vinto, e anzi, a distanza di mesi, ricopre un ruolo di primo piano nel cosiddetto Gruppo di Visegrád (gruppo a cui l’Ungheria appartiene, assieme alla Polonia, alla Slovacchia e alla Repubblica ceca).

Insieme alla data del 2 ottobre, l’estate scorsa è stato reso pubblico anche il testo del quesito referendario, che recita così: “Volete che l’UE prescriva il ricollocamento obbligatorio di cittadini non ungheresi in Ungheria senza l’approvazione del parlamento ungherese?”. Una domanda già dal tono provocatorio, che non affronta il cuore della questione migratoria, ma ne amplifica la retorica.

Retorica, la parola chiave per comprendere la campagna che si è svolta attorno a questo referendum. Dall’esito quasi scontato – una vittoria per Orbán è infatti molto più che una possibilità – il referendum ha visto crescere attorno a sé fronti squisitamente xenofobi e razzisti contro i rifugiati, alimentati in misura preponderante proprio dal governo: basti pensare agli opuscoli che ha stampato e distribuito il governo stesso, in cui compaiono file sterminate di immigrati alle porte del paese; immagini che si sono già viste alle spalle di Nigel Farage prima del referendum britannico del 23 giugno.

Non solo la forma, in questo periodo, ha avuto importanza, ma anche la sostanza: il governo ungherese si è infatti occupato di tracciare una mappa delle città europee dove non andare, perché, sostengono gli uomini del partito di governo Fidesz, caratterizzate da crimini collegati alla presenza di immigrati. Di nuovo, poco importa se tra queste sono capitati alcuni quartieri di Londra, dove scattarono delle rivolte urbane nell’estate del 2011, quindi prima dello scoppio della guerra civile in Siria, e molto prima dell’emergenza dei rifugiati: il messaggio che è passato ai più è che i migranti portano un innalzamento della criminalità.

O ancora: l’Ungheria, che si trova in un momento di particolare fervore economico, deve anche affrontare un aumento della domanda di lavoratori, causati da un’emorragia di giovani menti che emigrano in altri paesi europei più ricchi. La relativa crescita economica che vede protagonista il paese, dunque, è a corto di forza lavoro. La risposta, però, non pare poter arrivare, come in quasi tutti i paesi europei, dall’interno dei confini nazionali: l’Ungheria ha un tasso di fertilità più basso della media europea, e anche inferiore a quello tedesco (nel 2015, i numeri di figli per donna erano rispettivamente: media UE 1,57564, Germania 1,47486, Ungheria 1,43752). A 10 anni dalla propria entrata nell’Unione europea, la popolazione ungherese, nel 2014, era diminuita di quasi 250mila persone; e le previsioni sono ancora più pessimiste, perché, guardando al lungo periodo, nel 2080, ci saranno 8.685.213 residenti in Ungheria, rispetto ai 10.116.742 del 2004 (così come crescerà la speranza di vita per gli ungheresi, passando dai 72,4 anni del 2015, agli 85,4 anni sempre nel 2080).

Questi problemi, tuttavia, che meriterebbero una discussione più pacata, scientifica e approfondita, sono invece trattati alla stregua dell’esasperazione, come in tante altre parti d’Europa, anche a Budapest: se in molti paesi, però, le forze anti-immigrati sono (almeno per ora) all’opposizione o in minoranza, qui invece sono al governo. E la crisi migratoria, in realtà, ha funto da volano per il premier Orbán, che proprio per il suo pugno duro contro i rifugiati, ha catalizzato sempre più consensi. Se allora si passa dal lungo al breve periodo, i voti contano, eccome. Per un paese come l’Ungheria, dove molti altri problemi premerebbero per essere messi all’ordine del giorno, trovare una valvola di sfogo su cui concentrarsi, è la migliore soluzione per volgere lo sguardo su altri orizzonti. L’Ungheria nel 2015 è scivolata al 50esimo posto nella classifica mondiale della corruzione e il governo non pare intenzionato ad approvare misure che combattano tale fenomeno. Quest’anno, inoltre, il paese magiaro è sceso ancora di due gradini anche nella lista mondiale di libertà di stampa, redatta da Reportes sans frontieres, passando dal 65° al 67° posto. Anche su questo, Orbán tace, anzi è stato proprio lui a rendersi protagonista di un pericoloso arretramento in merito alle libertà d’espressione, vanificando gli sforzi fatti a partire della caduta del blocco sovietico. Come in molti paesi africani, o nella stessa Russia, il bersaglio preso di mira è stata un’altra minoranza, gli omosessuali, per nascondere fallimenti economici, mancanze di visioni, corruzione e altro ancora, così il governo ungherese – caso non unico – si è focalizzato sull’arrivo dei rifugiati in Europa.

Da una parte, dunque, motivi interni. Dall’altro, ovviamente, i nuovi equilibri che si stanno delineando all’interno dell’Unione europea. Già durante l’estate del grande afflusso (nel luglio 2015), quando l’Ungheria era proprio passaggio della rotta balcanica, il percorso che vide protagonisti centinaia di migliaia di rifugiati provenienti dal Medio Oriente, il primo ministro magiaro si erse a difensore dell’Europa cristiana e fece approvare la decisione di costruire una recinzione di ferro al confine serbo. L’euroscettico Orbán poteva finalmente incalzare le istituzioni europee su una questione davvero contingente.

Il vero punto di svolta, però, è occorso molto più recentemente, in particolare dopo la Brexit: questo evento, dove, come si sa, ha prevalso il fronte per l’uscita, è stato reso possibile anche per gli elementi fortemente anti-immigratori del fronte del Leave. Tutto ciò non poteva che essere linfa vitale alle energie di Orbán, che ancora più risoluto, ha sostenuto il referendum come strumento legittimo in cui il popolo si possa esprimere, e ha condotto una campagna veramente razzista, dove la distorsione e le menzogne continuano a fare da padrone e non importa se non rappresentano la realtà (tant’è che accogliere meno di 1.300 rifugiati per un paese con 10 milioni di abitanti, come prevedrebbe il piano della Commissione, non è propriamente un disegno impossibile).

La ritrovata collaborazione col vicino polacco, poi, gli ha permesso di alzare ancora di più la voce di fronte alle istituzioni europee: più di una volta richiamato all’ordine da Bruxelles (con scambi che sono diventati sempre più velenosi, come la frase del Ministro degli esteri lussemburghese che chiedeva l’espulsione dell’Ungheria dall’UE), ora Orbán non è più un lupo solitario, e con Kaczyński, uomo forte a Varsavia, ha trovato un’intesa che punta allo scontro frontale con la Commissione europea, proprio a partire dalle politiche migratorie. Non solo: la Brexit ha dimostrato che il percorso verso l’integrazione non è a senso unico, anzi l’Europa può prendere un altro verso: proprio per questo, prima del vertice di Bratislava del 16 settembre scorso, il primo ministro ungherese, facendosi portavoce del Gruppo di Visegrád, chiedeva una revisione dei trattati dell’Unione, verso un’ “Europa dei popoli”, dove gli Stati nazionali si riapproprino di prerogative che oggi possiede la Commissione.

Insomma, il 2 ottobre prossimo è molto probabile che giunga da Budapest un ennesimo colpo basso all’Unione europea, che andrà a minare la credibilità e la legittimità della Commissione. Un colpo su una questione attualissima, ma per cui le istituzioni comunitarie sono sembrate davvero paralizzate nell’intervenire efficacemente. Un colpo, ancora, che andrà a fomentare maggiormente le fila di quegli, ormai tanti, che ritengono che da questa Europa non possa provenire nulla di buono. Mai come oggi manca invece una leadership europea, manca una visione di insieme, un progetto sul lungo periodo, che invece di diventare ostaggio di un referendum basato su di una campagna xenofoba, sulla paura e sulle falsità, possa invece proporre delle politiche costruttive e pragmatiche, dei valori positivi e concreti, azzarderei a dire solidali e giusti; che possa guardare al futuro e non al passato, che possa rigettare il terrore e abbracciare la speranza.

Riccardo Roba