25/03/1957 – 25/03/2017, Trattati di Roma. Sessant’anni e (non) sentirli?

Il 24 marzo 1957 migliaia di bambini in tutta Europa andarono a dormire più felici del solito. L’indomani le scuole sarebbero rimaste chiuse per un evento che “i grandi” non esitavano a definire storico. La mattina del 25 marzo 1957 era stata infatti scelta come data per la firma ufficiale di due trattati: il “Trattato che istituisce la Comunità economica europea” e il “Trattato che istituisce la Comunità Europea dell’Energia atomica”. In seguito ribattezzati per brevità “Trattati di Roma”, i due documenti – siglati appunto in quella che Paul Henri Spaak aveva definito “la più augusta delle nostre città” – segnano un punto di svolta per la storia del continente europeo e sanciscono l’inizio di un innovativo cammino economico, politico e sociale all’insegna dell’unione: il cosiddetto processo di integrazione europea.

Questo progetto, che proprio oggi compie 60 anni e che negli anni ha ottenuto successi straordinari e affrontato altrettanto pesanti battute d’arresto, sta attraversando una fase che potremmo eufemisticamente definire difficile. Il percorso è costellato di insidie, ma mai privo di oasi in cui abbeverarsi, ricaricare il motore e ripartire. Ci sono rocce friabili che sgretolano certezze, arbusti velenosi e dirupi scoscesi da cui non si torna più indietro. Non mancano però gli scorci sul mare, gli incontri con pellegrini che ricordano il valore dello scambio, i fiori che sbocciano. Oggi l’Unione Europea – diretta discendente di quel 25 marzo [1]– deve essere più che mai consapevole di questa convivenza tra sollievi ed insidie. Deve essere più che mai in grado di offrire risposte concrete, che la legittimino di fronte ai suoi cittadini. Per fare ciò deve dapprima essere abile nel riflettere sul come rinnovarsi e poi capire come rendere credibile questo cambiamento. Lo scenario attuale, altrimenti, non lascia presagire una sensibile diminuzione delle insidie.

Come la totalità degli avvenimenti storici, anche i Trattati di Roma hanno preso forma in un contesto ben specifico, la cui considerazione risulta di fondamentale importanza al fine di comprenderne la portata. Nel 1957 il mondo, sia fisico che geopolitico, è sostanzialmente diviso in due, conteso dalle due superpotenze Stati Uniti e Unione Sovietica che dalla fine della Seconda guerra mondiale si spartiscono aspramente aree di influenza. È la tensione costante, spesso lacerante, ad arbitrare questa partita. L’Europa, in questo scenario, risulta relativamente piccola. Sicuramente non all’altezza di avanzare istanze di indipendenza in un mondo governato dalla logica bipolare. Il “Vecchio continente” era uscito a pezzi dal trentennio delle due guerre mondiali. La progressiva ascesa delle due superpotenze, contestualmente alle distruzioni causate dalla guerra sul suo territorio, ne avevano ridotto sensibilmente il peso specifico. Il centro del mondo aveva chiaramente cambiato latitudine.

Oltre al fattore esterno legato al contesto della guerra fredda, nello specifico le pressioni statunitensi volte a far sì che gli Stati europei si integrassero in funzione di cuscinetto antisovietico, fu anche una serie di fattori interni, su tutti la riluttanza dei Sei (Belgio, Francia, Germania ovest, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi) nel cedere porzioni di sovranità in ambiti strategicamente rilevanti per gli interessi nazionali, a determinare la scelta di unirsi economicamente. Le politiche sociali, ad esempio, divenute mezzo preferenziale di legittimazione del potere statale agli occhi dei cittadini, non potevano certo essere rese oggetto di effettive cessioni di sovranità. I Trattati di Roma sancirono dunque, almeno all’inizio, un’unione di tipo essenzialmente economico.

Gli Stati-nazione europei, indipendenti e sovrani, erano in una situazione di conflitto, più o meno latente, che perdurava da secoli. Il 1945 segnerà una svolta storica a questo proposito. Già da ben prima che la seconda guerra mondiale giungesse al termine erano iniziati a fiorire in Europa progetti di architettura politica che avevano come obiettivo la pacificazione del continente. La gran parte di questi individuava nello Stato-nazione la causa principale del perpetrarsi della guerra e ne auspicava, dunque, il superamento. Il più rappresentativo tra essi è sicuramente il celebre “Manifesto di Ventotene” redatto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi sulla piccola isola al largo delle coste campane durante l’esilio al quale furono costretti dal regime fascista.

Le voci che chiedevano l’unità si fecero via via più numerose ed autorevoli ed insieme alle logiche della guerra fredda andarono a costituire il contesto in cui prese avvio il processo di integrazione europea.

Il primo ed altamente simbolico passo fu compiuto il 9 maggio 1950 con la Dichiarazione Schuman, che annunciò la volontà di creare una Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), i cui membri avrebbero messo in comune le produzioni delle due risorse all’epoca strategicamente molto importanti. La tappa successiva fu il 25 marzo, quando con la firma dei Trattati di Roma si diede vita, oltre che all’EURATOM, al Mercato Europeo Comune (MEC), che prevedeva, nell’arco di pochi anni, l’abbattimento totale delle barriere doganali tra i membri della neonata Comunità Economica Europea (CEE).

La parte di continente che si era impegnata con quella firma divenne così presto familiare con misure quali la libera circolazione di merci, servizi, capitali e persone (leggi lavoratori). Il MEC fu da subito accompagnato da strabilianti successi economici. Il percorso di abolizione delle barriere doganali fu portato a compimento – seppur ancor in maniera imperfetta – nel 1968, con due anni di anticipo rispetto alla data stabilita. Nel giro di pochi anni le esportazioni intraregionali si moltiplicarono esponenzialmente, arrivando, nel caso dell’Italia, a punte del +30.4% verso gli altri membri CEE nel periodo 1958-62.

Se la CEE fu indubbiamente un grandissimo successo, soprattutto da un punto di vista economico, nel complesso che possiamo valutare fino ad oggi, però, la storia del processo di integrazione europea è stata caratterizzata da un alternarsi di successi e fallimenti, costantemente imbrigliata dalla tensione tra sovranità statale e principio sovranazionale, che le ha conferito una grande capacità di adattamento insieme con il pragmatismo di chi sa di non poter superare un certo limite.

Gli anni ’60 [2]furono caratterizzati dagli attriti tra Francia e Regno Unito per l’entrata di quest’ultimo nella Comunità, avvenuta poi nel 1973. Dal 1970 si iniziò invece a parlare della creazione di un’unione economica e monetaria, che fu effettivamente realizzata solo 30 anni dopo. Gli anni ’80 videro il pugno di ferro dell’Iron lady e l’eurosclerosi, insieme con la firma di un nuovo Trattato – l’Atto Unico Europeo – che si era reso necessario visto l’aumento a 12 degli Stati membri. Nel 1985 divenne presidente della Commissione Europea Jacques Delors, che nei suoi dieci anni di presidenza diede un grande impulso al processo di integrazione. Durante il suo mandato fu firmato il Trattato di Maastricht (1992), che stabilì le tre tappe per la realizzazione della moneta unica e creò ufficialmente l’Unione Europea. Gli anni 2000 si aprirono appunto con l’introduzione dell’euro e la bocciatura referendaria da parte di Francia e Paesi Bassi del “Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa” Quest’ultimo fu poi trasformato, al netto di ogni riferimento costituzionale, nel Trattato di Lisbona firmato nel 2007.

C’è un simbolismo che ha del beffardo nel numero, o meglio nella data 2007. Al contempo anno in cui viene firmato l’ultimo Trattato dell’UE e inizio della crisi finanziaria dei mutui sub-prime che poi condurrà ad una recessione di portata globale i cui effetti sono ben noti, il 2007 è diventato sintomo di fragilità e sgretolamento, congiuntura critica anche per l’Unione Europea, che ha risentito pesantemente dei suoi effetti.

Argomenti quali la pace tra gli Stati membri e la comune prosperità economica paiono soffrire oltremodo l’usura del tempo. La crisi, che ha contribuito a creare nuove diseguaglianze ed ha funto efficacemente da cassa di risonanza per quelle che già c’erano, ha giocato sicuramente un ruolo di primo piano nello sviluppo di un crescente malcontento verso Bruxelles.

Il termine crisi è stato – ed è –associato in maniera sempre più diretta all’Unione Europea. Non solo la crisi economica in sé. Si possono individuare almeno altre due crisi capaci in potenza di minare alla base il progetto di un’Unione Europea. In primo luogo la crisi migratoria: fenomeno complesso e di lungo periodo che ha conosciuto il suo apice nell’estate del 2015. In secondo luogo un termine che è ormai entrato nel linguaggio comune: la Brexit. Il voto referendario del Regno Unito ha reso concreta la possibilità per uno Stato membro di staccarsi dall’Unione, di scegliere di slegarsi da Bruxelles perché ormai solo più sinonimo di vincolo ed imposizione, creando così un precedente dall’alto potenziale disgregativo. Insomma una crisi dei valori europei, che porta oggi sempre più persone a chiedersi il perché dell’esistenza stessa dell’UE e che mette in serio pericolo il sentiero di unità e solidarietà intrapreso 60 anni fa ad oggi.

Non solo processi e fenomeni relativamente congiunturali, tuttavia. Una serie di fattori strutturali ha infatti contribuito e sta tutt’oggi contribuendo all’impasse in cui è incagliata l’Unione Europea. Il più significativo è sicuramente la tensione tra principio sovranazionale e sovranità nazionale a cui si è accennato sopra, dicotomia che ha percorso tutta la storia del processo di integrazione europea, mostrando i suoi lati più critici e contraddittori proprio nei momenti di maggiore difficoltà. La storia delle Comunità prima e dell’Unione poi è così sempre stata accompagnata da questo dualismo: da un lato, attori di natura sovranazionale pronti a cogliere ogni opportunità che potesse connotare il sistema in senso più federale, dall’altro, essenzialmente gli Stati membri, ben decisi nel non rinunciare ad alcune prerogative caratterizzanti la loro sovranità nazionale. Due esempi su tutti, la portata estremamente limitata del budget europeo (circa 155 milioni di euro il budget di Bruxelles nel 2016, 1.919.744 milioni di euro quello della sola Francia per lo stesso anno) e l’utilizzo dell’unanimità in seno al Consiglio per decidere delle questioni più intrinsecamente legate alla sovranità statale, ben riflettono la tensione tra i due estremi di questo continuum.

La continua tensione tra questi due poli ha nei fatti reso irrealizzabile la creazione di un effettivo governo dell’Unione inserito in un meccanismo di democrazia rappresentativa a livello europeo. L’ibrido istituzionale rappresentato dall’Unione è stato spesso infatti tacciato di scarsa democraticità. Il fatto di basarsi su dei trattati, e non su di un atto costituzionale, ha costretto le istituzioni europee a reggersi su di un ordine relativamente poco solido. Gli allargamenti degli ultimi 25 anni, poi, hanno visto aumentare il numero degli stati membri in modo esponenziale, ma non sono stati seguiti da una riforma sostanziale delle Istituzioni, che si sarebbe resa necessaria alfine di rilanciare l’integrazione, approfondendola e rendendola più efficace. Un allargamento così massiccio non ha permesso ai meccanismi dell’UE di reggere la sfida del cambiamento, restituendo ai cittadini europei l’impressione di una macchina da rottamare, di un’entità politica distante e dai confini geografici troppo spesso mutevoli. I cosiddetti partiti populisti, che ricoprono oggi un ruolo sempre più significativo sullo scenario politico europeo, si nutrono ampiamente di questi argomenti e si dimostrano capaci di sfruttarli sapientemente a proprio favore, confezionando troppo spesso immagini di Bruxelles semplicistiche ed approssimative, in larga misura basate sull’elemento emozionale.

Le contraddizioni dell’Unione Europea sembrano emergere oggi più che mai. Il consenso dei cittadini è ridotto all’osso, Bruxelles è spesso vista come aguzzina ed incapace di fornire risposte concrete alle problematiche che di volta in volta deve affrontare.

A questa logica contribuiscono in maniera alquanto significativa i leader nazionali ed in particolare quelli dei partiti/movimenti dichiaratamente euroscettici. La tendenza diffusa è quella di incolpare oltre misura l’Unione Europea dei propri problemi domestici, individuando così un facile e lontano capro espiatorio capace di allontanare ogni responsabilità dai confini nazionali.

Per non rischiare di lasciare questioni complesse in mani semplicistiche, l’Unione Europea deve trovare la strada di scrollarsi di dosso l’equazione con la burocrazia e il freddo rigore fiscale. In questi giorni sta guadagnando crescente credibilità l’ipotesi di una “Europa a più velocità”. È stato infatti questo lo scenario scaturito dal vertice di Versailles del 6 marzo in cui si sono riunite Germania, Francia, Italia e Spagna e dal Consiglio Europeo tenutosi a Bruxelles i giorni immediatamente successivi. L’ipotesi più auspicabile pare dunque quella di consentire differenti livelli di integrazione all’interno di un’unica macchina, seguendo la logica delle “coalitions of the willings” alla quale fa riferimento anche il Presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker nel suo recente “Libro Bianco sul futuro dell’Europa”.

In questi giorni, dunque, non mancano certo spunti di riflessione e nuove proposte: ancora una volta bisognerà però trovare la legittimità, i mezzi e le risorse per trasformare le parole in fatti concreti.

Oggi a Roma si terranno le celebrazioni per i 60 anni dalla firma dei Trattati CEE ed Euratom. Il contenuto della dichiarazione sarà importante soprattutto da un punto di vista simbolico, ma contribuirà sensibilmente alla formazione dell’idea dell’Europa che verrà. La congiuntura storica che abbiamo di fronte sembra davvero obbligare i leader politici ad una scelta di campo precisa. Mai nel corso di questi 60 anni si era tornato a parlare di nazionalismi in maniera così forte e diffusa. La possibilità che l’Unione Europea cessi di svolgere le sue funzioni – sul lungo periodo, s’intende – pare oggi, almeno tra l’opinione pubblica, più plausibile che in passato. Ciò impone agli Stati membri, e a tutti noi, la responsabilità di scegliere cosa desideriamo per il futuro del nostro piccolo continente.

Molteplici le questioni da dover affrontare. Riuscirà l’Unione Europea a scrollarsi di dosso il marchio economicista che l’ha resa invisa a molti? Quale la probabilità di una maggiore e più concreta attenzione alle politiche sociali? Questo compleanno pare arrivare nel mezzo di un punto di svolta. Quale forma assumerà l’Unione Europea nel prossimo futuro? Sarà possibile continuare con un’integrazione a 27? O si renderà necessario optare per un’Europa à plus vitésse? Ci sarà spazio nel prossimo futuro per lo sviluppo di elementi sovranazionali o si continuerà ad assistere al predominio dell’elemento nazionale nonché nazionalista? Nascerà finalmente quell’Europa della sicurezza e della difesa comune che renderebbe l’UE un vero e proprio soggetto nelle relazioni internazionali? O reali cessioni di sovranità in questo ambito rimarranno un auspicabile miraggio? Sono tutte domande aperte che per troppo tempo non hanno trovato risposta: ma è sempre l’ora più buia quella che precede l’arrivo del sole.

Chi scrive guarda con un misto di ammirazione e malinconia a quel 25 marzo di 60 anni fa. Vede in quel giorno di pioggia primaverile romana l’inizio di un qualcosa che ha avuto un ruolo importante nello sviluppo della sua formazione civica e politica. Un esperimento fatto da uomini che ha dapprima suscitato la sua curiosità, poi il suo interesse e poi il suo entusiasmo di studente, smanioso di comprendere ed approfondire prima ancora che di schierarsi.

A 60 anni di distanza ci sentiamo ancora di credere al progetto di un’Europa unita, conveniente da un punto di vista politico, oltre che affascinante in quanto progetto di unione. Il nostro contributo ha voluto essere un augurio ed una riflessione, allo stesso tempo una critica ed un atto di fiducia in una giornata che segna il ricordo di un avvenimento storico per il recente passato, presente e noi speriamo anche futuro del nostro continente.

A questo punto non ci resta che porgerti i nostri migliori auguri di buon compleanno, Unione Europea. Augurandoci che presto, anche se a 60 anni può sembrare tardi, tu decida sul serio che cosa fare da grande.

Matteo Marenco

Riccardo Roba

Morelli Umberto, Storia dell’Integrazione Europea, Guerini scientifica, Milano, 2011

http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Speciali/2007/europa-anniversario/Nascita-Cee-Roma-1957.shtml?uuid=05b2798c-d8a5-11db-bc34-00000e25108c

http://www.politicheeuropee.it/normativa/19648/i-trattati-di-roma

http://www.politicheeuropee.it/normativa/19635/lue-e-i-suoi-trattati

http://www.raistoria.rai.it/articoli/i-trattati-di-roma/12519/default.aspx

https://www.senato.it/documenti/repository/relazioni/archiviostorico/50UE/martino-rasspro.pdf

http://www.corriere.it/extra-per-voi/2017/02/24/cosa-sono-trattati-roma-vero-fondamento-dell-europa-e82ac6d8-faba-11e6-8a8e-992138e983bf.shtml

http://www.eurocomunicazione.com/25-marzo-1957-nasceva-leuropa/

http://www.repubblica.it/esteri/2017/03/06/news/vertice_a_quattro_sull_europa_a_versailles_merkel_indicare_la_via_hollande_serve_ue_della_difesa_-159917588/

[1] Per un’interessante rassegna stampa del 25 marzo 1957 si veda https://www.senato.it/documenti/repository/relazioni/archiviostorico/50UE/martino-rasspro.pdf

[2] Per un resoconto storico del processo integrazione europea si veda, ad esempio, Morelli (2011)